“Il carcere è ingiusto come la nostra società, per i detenuti i diritti diventano concessioni”

“È un momento terrificante per il nostro mondo, ma il carcere si può trasformare”. Dalle perquisizioni agli ambienti, dalla tecnologia alla fiducia: in galera ogni diritto diventa concessione, tutto dipende da decisioni prese dall’alto. “Il carcere somiglia alla nostra società, è ingiusto come è ingiusto il mondo in cui viviamo. Ma un’alternativa è possibile, a partire dalle piccole cose: ad esempio, si può iniziare a cambiare il concetto di diritto. Oggi il carcere è ancora il luogo del potere assoluto, tutto è una concessione sovrana”. Dal 1991 Lucia Castellano lavora nell’amministrazione penitenziaria, oggi è provveditrice regionale dell’amministrazione penitenziaria in Campania. Trentatré anni di impegno per migliorare, anche di poco, la vita nelle carceri italiane. C’è ancora tanto da fare, come ha spiegato al Festival del Pensare Contemporaneo di Piacenza nel pomeriggio di domenica 22 settembre davanti a un salone di Palazzo Gotico gremito. Insieme a lei, la giornalista Daria Bignardi, che quest’anno ha raccolto una serie di esperienze di detenzione nel libro “Ogni prigione è un’isola”. A moderare l’incontro, la giornalista Marcella Maresca.

“Cominciamo a pensare ai detenuti come soggetti portatori di diritti – ha detto Castellano – potrebbe essere una piccola grande novità”. Tante le innovazioni che, secondo la procuratrice, si potrebbero attuare nel mondo del carcere. Per la comunicazione, Castellano dice che “si potrebbe permettere ai detenuti di usare le e-mail, tra l’altro sarebbero più tracciabili rispetto ai pizzini”. “La pandemia – racconta – ha portato in carcere le videochiamate, che si aggiungono ai colloqui in presenza: il detenuto può così entrare in casa propria, vedere le stanze dei propri figli”. Ma è sempre il direttore a stabilire se e quando concedere questa libertà. “I diritti sono tali perché non si meritano – dice Castellano – andrebbe cambiato il concetto”.

Daria Bignardi
Daria Bignardi

Da anni Daria Bignardi frequenta i penitenziari italiani. “San Vittore (a Milano, ndr) è la realtà che conosco meglio – rivela – anche perché non è lontano da dove vivo, ma ho visitato anche il carcere femminile di Pozzuoli e quello di Tirana, in Albania. In questi anni ho capito quanto è complesso quel mondo e come è ingiusto che venga amministrato in modo così arcaico, medievale. Soprattutto negli ultimi dieci anni il carcere è un luogo che accoglie un’umanità dolente, disgraziata. È molto cambiato rispetto a ciò che vedevo nel 1998, quando c’erano detenuti politici e grandi rapinatori; oggi ci sono soprattutto piccoli delinquenti, malati psichiatrici, tossicodipendenti e immigrati. E gli strumenti sono pochi per stare dietro a questo mondo. Il carcere somiglia alla nostra società, è ingiusto come la nostra società. Molti finiscono in carcere da innocenti o per reati commessi involontariamente, è un mondo che riguarda tutti noi come cittadini”. E poi sottolinea come negli ultimi trent’anni siano diminuiti i reati ma aumentata la popolazione in carcere. “Nel 1990 c’erano 30mila detenuti, nel 2019 sono diventati 60mila. È un’assurdità”. Oltre a chi sta in carcere, c’è anche – per fortuna – chi può scontare la pena in modo diverso. “Per le pene inferiori ai quattro anni – spiega Lucia Castellano – il legislatore immagina possibili misure alternative al carcere, come i lavori di pubblica utilità. Il numero di persone che scontano la pena all’esterno sta crescendo, e questo è un bene. Ma, allo stesso tempo, dovrebbe diminuire la popolazione detenuta, che invece è in crescita. C’è qualcosa che non va”.

Lucia Castellano
Lucia Castellano

“Chi entra in carcere viene perquisito in modo disumano. Perché non pensiamo a un tipo di controllo simile a quello degli aeroporti? Sarebbe ugualmente efficace ma non lesivo della dignità”, propone Castellano, che però amaramente constata: “Se avessimo relazioni significative che rispettino la dignità avremmo un carcere migliore, io non ci sono riuscita, passo il testimone a chi è più giovane di me, nella speranza che si possa migliorare”. Come dovrebbe cambiare la relazione con i detenuti? “Il carcere non può essere un servizio pubblico come gli altri – afferma la procuratrice – soltanto nel momento in cui la relazione col detenuto è vera, quando il detenuto percepisce di avere intorno un mondo che si occupa di lui e il mondo penitenziario ruota intorno all’utenza (i detenuti), solo così potremmo davvero pensare di cambiare il carcere”. È un cambio di paradigma nella mentalità, nel modo di pensare ai detenuti quello che Lucia Castellano auspica. “Si può fare se il carcere smette di essere solo un affare delle amministrazioni penitenziarie e diventa un affare della città. La città deve entrare dentro il carcere: la contaminazione è imprescindibile affinché il carcere acquisti il senso che la legge gli dà. La regola senza la relazione non ha significato, così come non ce l’ha la relazione senza la regola”.

Festival del Pensare Contemporaneo - Ogni prigione è un'isola
La coda per entrare a Palazzo Gotico

Come si rapporta la politica al carcere? “La politica è molto bloccata sulla questione carceraria – afferma Bignardi – perché parlare di trasparenza, di modernizzazione delle carceri non porta voti. La gente pensa: perché stanziare risorse per chi ha commesso crimini?”. “Il carcere è l’ultimo anello di una catena – spiega Castellano – spesso ci si finisce per deprivazione sociale o per impossibilità di avere una misura alternativa, spesso perché non si ha una casa. Questo succede soprattutto al nord, dove c’è un’utenza straniera da inserire, rispetto alla quale noi siamo inermi, mentre al sud la situazione è diversa. Siamo il punto finale di un sistema che porta in galera sempre la stessa gente: a parte il periodo di Mani Pulite, ho sempre visto ‘facce da galera’. Al sud invece in carcere ci sono anche persone affiliate o vicine alla criminalità organizzata. Il nostro è un compito difficilissimo, ma allo stesso tempo affascinante”. Quello del carcere è un mondo difficile sotto svariati punti di vista, ma le esperienze di redenzione esistono. “Può capitare che in carcere un detenuto conosca una persona, uno psicologo, un educatore, che gli dà fiducia. Per cui, quando esce, ha voglia di fare del bene. La fiducia è in grado di cambiare qualunque relazione. A volte è più facile stare nel proprio angolo e non amare, ma quando ci si sforza di farlo i risultati ci sono“.

Marcella Maresca
Marcella Maresca

Uno dei racconti contenuti nel libro di Daria Bignardi ha come protagonista Ahmed, il fratello di una delle vittime della rivolta dell’8 marzo 2020 nel carcere di Modena. “Quando Conte annunciò l’inizio del lockdown, nelle carceri iniziarono le rivolte. Se il virus fosse entrato, molto probabilmente tutti si sarebbero contagiati. Furono sospesi i colloqui, i trattamenti, e i detenuti erano consapevoli del rischio di morire come topi. Nel carcere di Modena quel giorno morirono nove persone, ufficialmente a causa dell’eccesso di psicofarmaci e metadone prelevati dalla farmacia. Ahmed – racconta Bignardi – mi disse che pochi giorni prima suo fratello gli aveva confidato che stava molto male e si sentiva di morire. Aveva una pena breve, sarebbe uscito dopo un mese. Ahmed mi disse: ti sembra possibile che una persona che esce fra un mese si uccide col metadone? Come tanti altri, prima di immigrare Ahmed considerava l’Italia il luogo della legalità. Sono queste le storie che mi fanno vergognare“.

Festival del Pensare Contemporaneo - Ogni prigione è un'isola

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