E continuarono a chiamarlo giornalista IL COMMENTO

Negli ultimi dieci anni, la storia della categoria giornalistica in Italia (e non solo in Italia) è stata prevalentemente una storia di trincea, con una strenua difesa del posto di lavoro e al tempo stesso di riaffermazione dei diritti conquistati nei decenni precedenti.

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Su concessione dell’autore pubblichiamo l’intervento che Luigi Carletti, giornalista e scrittore, presidente e direttore editoriale di Typimedia, ha preparato in occasione della partecipazione alla giornata organizzata per lunedì 3 luglio 2017 presso la Federazione italiana della stampa, a Roma, dal titolo “Il giornalista artigiano nell’evoluzione digitale. Nuovi saperi e competenze”. Iniziativa di Stampa Romana.

L’ETICA COME FATTORE DI MARKETING: COSI’ SI SALVA UNA PROFESSIONE IN CRISI – Una riflessione sulla professione del giornalista nell’era del web

Negli ultimi dieci anni, la storia della categoria giornalistica in Italia (e non solo in Italia) è stata prevalentemente una storia di trincea, con una strenua difesa del posto di lavoro e al tempo stesso di riaffermazione dei diritti conquistati nei decenni precedenti.

In alcuni casi questa difesa – comprensibile, non sempre condivisibile – ha coinciso con la resistenza al cambiamento della nostra categoria fino ad assumere posizioni di scetticismo, di rifiuto e di retroguardia.

E’ successo che – anziché interpretare o cavalcare il cambiamento – lo si sia combattuto o al limite ignorato, ritenendolo forse un fenomeno passeggero, marginale, modaiolo, distorsivo delle buone pratiche del giornalismo, dell’informazione e dell’editoria. Indolenza e sciatteria, come spesso succede, non sono state buone compagne di strada.

In altri casi, per molti colleghi, ha anche prevalso un senso di inadeguatezza, quasi di smarrimento, spesso dovuto alla mancanza di una tempestiva e adeguata formazione professionale da parte delle aziende; non di rado dovuto anche allo sfoggio di “latinorum tecnologico” da parte di prestigiosi colleghi improvvisatisi guru della materia ma poco propensi a divulgare seriamente e generosamente le loro conoscenze e competenze.

Intanto i segnali della crisi erano ogni anno più evidenti: tagli agli organici, ridimensionamenti, progettualità azzerata, chiusure, ricorso sempre più frequente agli ammortizzatori sociali. Senza parlare dei prepensionati riportati in redazione come collaboratori o degli stagisti sfruttati come forza lavoro da sala macchine (per non dire da stiva). Ma siccome nel frattempo molti stipendi correvano (e continuano a correre), si pensava forse che il problema riguardasse sempre qualcun altro.

Nella giusta e doverosa battaglia per salvaguardare il settore, sono purtroppo entrati elementi di arretratezza culturale, di egoismo e di ottusità propri di una categoria che invece, dell’innovazione, avrebbe dovuto fare la sua bandiera. Così non è stato e i risultati che abbiamo oggi davanti dovrebbero spingere tutti gli attori a compiere una seria e severa riflessione.

E sia chiaro, non per un generalizzato mea culpa che non serve a nessuno, ma semplicemente perché il processo non è finito. E’ appena cominciato. E dagli errori bisognerebbe provare a imparare qualcosa.

Questo riguarda per primi gli editori, che in questi anni hanno visto calare vertiginosamente fatturati e peso specifico delle loro aziende con tutto quel che ne consegue: tagli all’occupazione, testate chiuse o svendute, declino di un settore vitale per la democrazia e per il confronto nel Paese.

Ma invece, quella a cui si assiste ancora oggi, è la corsa alle sovvenzioni statali per scaricare dipendenti, alleggerirsi di costi e salvare il salvabile, ben sapendo che – continuando così – non si salverà quasi niente.

Questa è la mia personale cronaca di un decennio e più di editoria italiana. Perlomeno dal 2007 a oggi. Ovvero da quando, contemporaneamente all’inizio dell’ultima grave crisi economica, si è avuta anche l’esplosione dei social network come li conosciamo oggi e il contestuale sviluppo degli smartphone (il primo Iphone è del 2007): la tempesta perfetta che ha cambiato il mondo.

Molti altri, questo periodo, preferiscono raccontarlo diversamente e ritengono che invece sia stato fatto tantissimo nonostante le avversità scatenate dagli dei e dal destino.

Tutti i giudizi sono probabilmente legittimi. Tutti i giudizi sono certamente discutibili. Il confronto è utile anche per questo, a patto di non indossare i panni del medico pietoso.

E’ un dato di fatto che mentre intorno a noi il mondo cambiava con i tempi e con le modalità di un’autentica rivoluzione, noi spendevamo le nostre energie e il nostro arsenale sindacale in battaglie probabilmente tutte doverose e legittime, ma segnate da un non trascurabile dettaglio: quello di una scarsa consapevolezza rispetto alla portata di quanto stava avvenendo.

Perché quanto stava avvenendo – ed è avvenuto e sta ancora avvenendo – ha cambiato e cambierà ancora non solo l’informazione, l’editoria e più in generale la comunicazione, ma sta trasformando la nostra professione in qualcosa di molto diverso da quello che per anni ci siamo raccontati e da ciò che – per esempio – vediamo rappresentato normativamente nel contratto nazionale di lavoro.

Strumento fondamentale, ma oggi probabilmente inadeguato rispetto ai tempi che stiamo vivendo. Non mi risulta che in questi dieci anni il sindacato abbia sviluppato un particolare sforzo su come cambiare il contratto giornalistico. Se lo ha fatto, è mancata un’adeguata comunicazione. Sono mancati, soprattutto, i segni di un’effettiva volontà di cambiamento.

Oggi siamo ad un passaggio epocale, dove i vecchi modelli non funzionano più o funzionano molto meno, dove il vecchio mondo perde i pezzi e il nuovo che avanza ne aggiunge di nuovi che però non si sa se e quanto dureranno.

Siamo in una fase cruciale, in cui i privilegi di una parte della nostra categoria sono inconcepibili per una larga parte del mondo del lavoro e per una larga parte delle persone che, a vario titolo si avvicinano al mondo dell’informazione. Una fase in cui – lasciatemelo dire – il nostro parlarsi addosso tra addetti ai lavori (nei dibattiti, nei premi che ci diamo, nei salotti televisivi) è sempre più scollegato e distante dal mondo reale.

Che non è migliore di noi, e in molti settori non sta affatto meglio, e però dovrebbe essere il nostro terreno di caccia e di confronto e d’indagine quotidiani, dovrebbe essere l’interlocutore con il quale riusciamo a sintonizzarci comprendendone i veri cambiamenti e le diverse traiettorie, mentre spesso invece – comodamente seduti dietro a un computer – ne raccontiamo i contorcimenti ripetitivi più esteriori e visibili, e le secrezioni più banali che però, sul momento, ci fanno fare tanti clic e così ci svoltano la giornata.

Proseguendo di questo passo, il mondo dei media tradizionali non andrà molto lontano. Non lo dico io, lo dicono i dati che sono sotto gli occhi di tutti. C’è consapevolezza rispetto a questo? E se c’è, come la si misura? Permettetemi di dire che al momento le sensazioni non sono delle migliori.

La generazione che oggi governa le principali testate del Paese ragiona con un orizzonte che è quello della pensione o, peggio ancora, delle proprie personalissime traiettorie tra un incarico e l’altro. Parlo dei direttori e dei loro staff.

Professionisti che un tempo sognavano di incidere se non di cambiare il mondo e ora tutt’al più sognano una consulenza post-pensionamento. Anche questo è un indice di depressione del settore. Depressione dorata, nel loro caso, ma pur sempre depressione.

E poi c’è il management delle nostre aziende editoriali. Il management: ecco, parliamone. Il management sopravvive facendo l’unica cosa che sa fare e attraverso la quale sembra dare un senso alla propria esistenza e soprattutto alle proprie retribuzioni: taglia la pianta su cui sta seduto. Arriverà il giorno in cui la pianta non ci sarà più ma vedrete, il tagliatore sarà sparito un minuto prima.

Mancano gli editori, questo è vero, e d’altronde alcuni di quelli che ci sono e si professano tali li ho sentiti io, con le mie orecchie, esprimere oltre dieci anni fa concetti equivalenti a un alzabandiera bianca: Internet era l’onda anomala che li sormontava e che li avrebbe travolti.

Qualcun altro, nel mondo che funziona con criteri diversi, su quell’onda ci è saltato sopra e si sta ancora divertendo, ma per farlo servivano “ricerca e sviluppo”.

Servivano – udite, udite – coraggio, spirito imprenditoriale e investimenti. Ne avete visti in giro? A parte qualche sporadico caso, io no. In compenso continuiamo ad assistere a incontri pubblici in cui chi più ha tagliato e ridimensionato, più ci spiega come sarà l’editoria del futuro.

Perché in Italia funziona così: chi meno sa, più si avventura nel dare pubbliche lezioni. Tipico del nostro Paese. Perché tanto, qualcuno che gli chieda conto di quello che ha fatto (o non fatto) ovviamente non c’è mai.

Alcuni di questi editori sognano ancora testate fatte da non-giornalisti, perché la loro convinzione è che algoritmi, software e ingegneri siano la spina dorsale del digitale. In queste posizioni non c’è solo l’ignoranza più deprimente, ma c’è la conclamazione della loro incapacità di imprenditori a misurarsi con il cambiamento.

Negare la professione giornalistica significa negare la qualità dell’informazione declinata secondo criteri professionali che – se rispettati – non s’inventano né s’improvvisano. Negare tutto questo significa, molto semplicemente, prepararsi a chiudere.

Io credo che il lettore/utente si chieda perché, in un mondo in cui tutti informano, lui dovrebbe preferire una testata rispetto a un’altra se quello che poi viene pubblicato scaturisce da un processo che di giornalistico ha sempre meno? Allora ben vengano le fashion-blogger, il marchettificio degli influencer di tutte le categorie e i social senza intermediazione, con il loro carico di merce buona e meno buona, di idee brillanti e di fake news.

La nostra generazione – parlo dei cinquantenni prossimi alla fase finale del loro percorso professionale (che dovrebbe essere anche la più proficua) – oggi dovrebbe avere e sentire la responsabilità di rifondare professionalmente la categoria mettendo in campo almeno tre qualità principali: competenza, generosità e umiltà.

Questo significa anzitutto dire ai più giovani che il “copia e incolla” non è giornalismo, che Internet non è una fonte primaria, che target non è una parolaccia rubata al marketing, che il risultato finale del proprio lavoro in termini di audience e risposta del mercato – rispettati i principi etici e le norme fondamentali – è qualcosa che li riguarda fin dall’inizio e del quale non possono infischiarsene.

Significa inoltre depurare questa professione da tutti gli aspetti burocratici e parastatali che con il tempo hanno finito per creare una concezione impiegatizia di un mestiere che dovrebbe conoscere l’orologio solo per rispettare la timeline della produzione e non per farsi cadere la penna un minuto prima della fine dell’orario di lavoro.

Per fare questo mestiere sarà necessario tornare all’antico, quando nelle redazioni (a me è capitato con un signore che si chiamava Mario Lenzi) ti assumevano parlando di passione, accuratezza e impegno civile. E di etica.

Ebbene sì: l’etica.

Lungi da me scivolare nell’idealismo. L’ultima volta che in una riunione ho parlato di etica, un collega molto esperto mi ha battuto la mano sulla spalla e mi ha dato del “romantico”. Era forse un complimento? Ho il sospetto che no, dal suo punto di vista proprio non lo fosse.

Ma io, in questa sede, voglio parlare di etica come categoria del business perché ne faccio un ragionamento puramente editoriale. Di impresa editoriale. Nel senso più ampio del termine, quindi culturale ed economico, intellettuale e, appunto, di business inteso come sostenibilità economica e quindi indipendente da pressioni e condizionamenti di qualsiasi tipo.

Io ritengo che l’etica – un’etica senza proclami ma metodica – sarà il principale fattore di marketing dell’informazione del futuro, un modo per farsi percepire come “originali, corretti e affidabili, quindi speciali”, l’unico modo per distinguersi davvero, l’unico modo per accendere una luce particolare nel panorama di luci e lucette – alcune anche molto abbaglianti – dei tantissimi che sempre di più ci bombarderanno di notizie e di contenuti.

Tutto questo si accompagnerà alla necessità del pubblico – una necessità sempre più forte – di orientarsi nel mare magnum dell’informazione disponibile, di trovare punti di riferimento solidi e affidabili. Con la crescita di questa consapevolezza, nel pubblico crescerà il bisogno di tenere a distanza la mucillaggine montante dei contenuti sciatti e senza valore o, peggio, stupidi, corrotti e perfino pericolosi. Ecco la funzione dei giornalisti se i giornalisti sapranno nutrirsi di passione, obiettività, accuratezza e sapiente ostinazione.

Non so quanto, oggi, nelle redazioni si parli di etica da infondere nel lavoro quotidiano, specie con i più giovani, con gli stagisti e con i collaboratori che ancora sognano di fare questo mestiere. Arriverà il giorno in cui a questi giovani dovremo dire che “siamo costretti a essere etici”. E buon per tutti noi se questa “costrizione” la vivremo con orgoglio e soddisfazione professionale.

Questo e molto altro ci sarebbe da fare, oggi, per rifondare una categoria che è giunta, obiettivamente, alla fine di un ciclo e non sa se dopo ce ne sarà un altro. Tanto che qualcuno ipotizza non solo la fine dei giornali ma anche quella dei giornalisti.

La mia opinione è che proprio in virtù delle caratteristiche e delle modalità con cui la digital disruption – la rivoluzione digitale – ci ha investiti, nel futuro che è dietro la porta ci sarà un fortissimo bisogno di professionisti in grado di “certificare la realtà”.

In un mondo in cui tutti producono informazione grazie a una tecnologia diffusa e di facile accesso, in cui tutti possono dotarsi degli strumenti utili a comunicare, e in cui il pubblico è potenzialmente tutto raggiungibile perché costantemente collegato (quindi con un’audience quantitativamente non paragonabile al passato), il tema della reliability – l’affidabilità – sarà centrale e fondamentale.

Autorevolezza, affidabilità, correttezza, originalità, verticalità, competenza, capacità di raccontare, spiegare e risolvere: questa sarà la partita da giocare.

Come si può ben vedere, qualcosa di leggermente diverso dal panorama odierno, dove anche su testate di primo livello capita di leggere news mal copiate e pure mal incollate oppure news che stanno per giorni sulla home-page solo perché gli analytics dicono che continuano a essere molto cliccate a dispetto del loro oggettivo valore di contenuto.

Per conseguire un risultato del genere non servono software particolari né manager di nuova generazione. Servono modelli editoriali economicamente sostenibili in armonia con regole adeguate a un mondo profondamente cambiato nelle dinamiche economiche e lavorative.

Servono “ricerca e sviluppo” condotti scientificamente, né più né meno come molti altri settori produttivi diversi dall’editoria fanno metodicamente da decenni. Servono nuove figure professionali in cui convivano competenze effettive e gusto dell’artigianato, figure – ebbene sì – ancora molto artigianali ma in armonia con la tecnologia dell’oggi e del domani.

Chiamateli certificatori della realtà, chiamateli narratori affidabili e puntuali, o se preferite, continuate pure a chiamarli giornalisti.

Luigi Carletti (presidente e direttore editoriale di Typimedia)

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