Nello Vegezzi l’artista dell’eros foto

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Torna la “Nave in bottiglia” e continua il viaggio di Mauro Molinaroli sul filo dei ricordi. 

Nello Vegezzi. Ricordo la sua bici nera, il pedalare e il suo incedere lento e riflessivo. In autunno e in inverno, quando il freddo pungeva e le nebbie avvolgevano la città, egli si intabarrava. In estate non toglieva mai la maglietta nera girocollo. Alla francese, esistenzialista e maudit.

Scriveva poesie e scolpiva le sue fantasie su legno verniciato di nero, leggeva Heidegger e altri filosofi. Era inconfondibile. Anche la sua voce, l’avresti conosciuta chissà dove. Attorno a lui gli amici più cari. E, negli ottant’anni dalla nascita, è uscito un libro, Tam tam la vita l’amore la morte.

Poesie edite e inedite (1966-1993) (Diabasis). Il volume, con una prefazione di Andrea Cortellessa, critico letterario che ha collaborato con scrittori e critici quali Gianni Celati e Nanni Balestrini e curato opere di importanti autori della cultura italiana del Novecento, da Giorgio Manganelli a Edoardo Sanguineti a Tommaso Landolfi, è stato realizzato grazie alla generosità e al contributo di Pietro Casella e all’intraprendenza dello scultore Giorgio Milani.

Mi dicono che la sua, sia stata una vita agra (e cito volutamente il romanzo di Luciano Bianciardi), vissuta ai margini, forse per scelta e forse per necessità. Le sue opere, sono lì, scolpite nel tempo e nella memoria. Lontano dai clamori, rintanato nella sua creatività dava vita a performance suggestive. Penso allora alla Topotopoerotica rappresentata, in un pomeriggio di sole in piazza Cavalli. Vegezzi ci ha regalato momenti di poesia e di arte. Può non piacere.

E allora ha ragione il critico Eugenio Gazzola, quando sostiene che “l’intenzione non recondita di questo libro sta tutta in un tentativo: riportare la figura e l’opera di Vegezzi alla sua natura originaria, al suo carattere prima, alla lingua prima, che ha incarnato la sua visione del mondo”. Come dire che la sua figura e le sue opere sono state ricoperte “da una sovrafigurazione, da un sovratesto che ne hanno alterato o influenzato la ricezione, l’accoglimento dell’opera nel tempo.

La poesia di Nello – commenta Eugenio Gazzola – ha conosciuto un sostanziale blocco della diffusione, della popolarità, della storicità, nel corso degli ultimi dieci anni, contro cui hanno potuto ben poco persino gli atti d’amore che gli sono stati tributati dagli amici, i sodali, i complici di quando era in vita”. Molte sono state – a suo dire – le iniziative che lo hanno riguardato, “poche le possibilità di stabilizzare in una cifra estetica trasmissibile lo zoccolo serio, materico della sua opera. Vegezzi ci è parso autore gelosamente custodito e tenacemente proposto, ma sempre nella visuale contrapposta e identica di un passaggio su strade note. Vale a dire: pochi parlano a pochi delle gesta di uno solo”.

Ha ragione Gazzola quando aggiunge che occorre ritrovare il Vegezzi originario: “La sovrafigurazione – spiega – era quella del rivoluzionario eccentrico, del poeta maledetto in ogni tempo e assediato da problemi di varia natura – denaro, salute, riconoscibilità del suo lavoro da parte del mondo letterario – nel quale si specchia una tranquilla borghesia provinciale rassicurata dalla propria vicinanza al genio. Siamo riusciti a intaccare quel sovratesto che influiva, inclinava, in un certo senso, la lettura della poesia di Vegezzi? Mi sembra che il primo passo sia stato compiuto, saranno poi il tempo e l’opera stessa di Nello a dirci se ne valeva la pena”.

Carlo Berté, uno degli artisti tra i più noti nella Piacenza di allora, tra via Taverna e via Campagna, ricorda Nello: “Eravamo molto amici, Vegezzi era un personaggio particolare, colto, intelligente. Ci rivedemmo negli anni Ottanta, si lamentava perché nessuno pubblicava le sue poesie, gli presentai Vanni Schweiller e diede alle stampe Dal dissenso all’esteterotica, che fu, per quei tempi, un sasso scagliato contro un vetro. A Vanni quelle poesie piacquero talmente tanto che un’estate a Otranto mi vide e recitò un verso di Nello. Vegezzi era anche uno scultore e un pittore di talento, un po’ meno bravo sul fronte della regia cinematografica, ma i suoi legni dipinti di nero restano delle sculture bellissime.

L’ho ritrovato nel bel libro di Paolo Colagrande, Fideg, il suo romanzo d’esordio, che ho apprezzato molto. Che altro dire? Siamo invecchiati, il tempo non mi ha fregato, questo no”. Vegezzi resta a suo modo un’icona, tenuta ancora in piedi con pazienza certosina da Franco Toscani e Gianni Zambianchi. Gli amici di una vita. E ogni tanto quel tabarro nero che lentamente si allunga in via Taverna su una bicicletta nera è un sogno notturno. Si, un sogno, solo un sogno.

Mauro Molinaroli

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