La Liberazione di Piacenza “Con un fiore nella canna del mitra” foto

Sabato 28 aprile, nella ricorrenza della Liberazione di Piacenza il tradizionale omaggio ai cippi partigiani, a partire dal Monumento alla Resistenza sullo Stradone Farnese.

Alla presenza del vicesindaco Elena Baio e del presidente provinciale Anpi Stefano Pronti, il percorso ha toccato le consuete tappe dove si trovano i cippi commemorativi delle battaglie e dei caduti della lotta di Liberazione a Piacenza.

Il monumento sul Lungo Po, le lapidi commemorative alla Cementirossi e al cimitero urbano. Presente anche Renato Cravedi, il partigiano “Abele”.

Anche quest’anno era presente una rappresentanza del mondo della scuola, in particolare due classi della scuola secondaria di primo grado “Dante – Carducci”.

Di seguito il racconto del 28 aprile del 1945 tratto da “Il partigiano Abele” le memorie di Renato Cravedi edito da Officine Gutenberg

Il 28 aprile a Piacenza. Il giorno seguente, gli ordini superiori ci imposero di entrare in città dalla zona del Belvedere. Non da Borgotrebbia, come avevo sperato in un primo tempo. Avanzammo dalla parte della Raffalda fino a Montecucco, alla grande cascina.

Eravamo attestati lì, quando ci imbattemmo in un gruppo di tedeschi in ritirata lungo il Canale della Fame. Ci fu anche una sparatoria. Alla sera ci spingemmo guardinghi in città lungo via Veneto, fino quasi a Barriera Genova, e poi tornammo indietro all’incrocio con via Bianchi.

Trovammo da dormire in una villetta, dove ci ospitò una donna che lì viveva coi suoi figli. Ci preparò letti con lenzuola bianchissime, che bello… Sentimmo altri carri armati muoversi in città, uno lo fermai io stesso. All’alba la città era immersa in un silenzio irreale, eravamo consapevoli di essere tra i primi partigiani a rientrare. Ci guardammo in faccia, tra noi c’era anche chi esitava, anche perché farsi ammazzare l’ultimo giorno di guerra sarebbe stata una beffa.

Alla fine decidemmo di metterci in marcia e il comandante ci raccomandò: “State attenti”. Eravamo in sette, ci disponemmo a camminare a dieci metri di distanza l’uno dall’altro per evitare i cecchini: i primi tre incolonnati, il comandante nel mezzo, e a seguire gli altri tre.

La gente era uscita dalle case, qualcuno ci venne incontro, qualcuno ci abbracciò. Percorremmo tutto il corso fino a Largo Battisti, quando si fece sotto di nuovo un uomo per avvisarci: “Lassù ci sono i fascisti”. Ci indicò un palazzo, corremmo su per le scale e ci trovammo davanti a due porte. Provai ad aprire la prima, ma era chiusa a chiave. Mentre armeggiavamo per sfondarlo, dall’altra uscirono inaspettatamente delle giovani donne in camicia da notte che passarono di corsa.

Impugnai il mio Bren e con una raffica aprii la porta: dentro c’erano i loro vestiti, una radio, ma loro non c’erano più. Allora mi balenò un pensiero: quelle erano le loro donne. E difatti quando tornammo sulle scale, si erano già dileguate.

Liberazione di Piacenza

Un fiore nella canna del mitra. Il nostro obiettivo era il Palazzo del Governo, le sede dell’attuale Prefettura di via San Giovanni. Da via Garibaldi raggiungemmo piazza Borgo per fare il giro più largo, perché le vie trasversali – via Vigoleno e via Croce – erano state murate.

Il comandante mi ordinò di fermarmi in piazza Borgo a presidiare la zona. Ricordo che un gruppo di ragazze mi venne incontro con un mazzo di fiori, ne estrassi uno, non rammento se fosse una rosa o altro, e lo infilai nella canna del mitra.

Allora una delle ragazze si affrettò a dirmi: “Lo tolga, che se dovesse sparare, scoppia”. Ma per fortuna non dovetti far partire nemmeno un colpo.

Anch’io raggiunsi gli altri della squadra in Prefettura, la girammo in lungo e in largo, entrammo anche nell’ufficio del prefetto Graziani: davanti a noi mobili antichi, sul tavolone uno splendido Mauser tedesco a ripetizione, decorato e lucidato: era il suo fucile personale.

Mio fratello Mario lo prese per primo, ma subito fu il comandante Marchini a reclamarlo. Quando uscimmo dal palazzo arrivò una jeep, scesero un paio di ufficiali americani. Uno di loro, prima di ripartire, ci fece una richiesta: voleva portare con sé un arma italiana, come trofeo.

L’unico di noi che aveva un’arma italiana era Mario, che così dovette separarsi anche dal suo mitra Beretta, e non lo fece per nulla volentieri, anzi non voleva proprio.

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