Non volevamo la luna, ma solo un po’ di fantasia

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“Non volevamo la luna ma solo un po’ di fantasia”. Piacenza e i cambiamenti degli ultimi decenni nella nuova puntata di “Nave in bottiglia” di Mauro Molinaroli

Riflessioni d’inizio estate. Siamo stati scavallati dal tempo, è vero, noi sessantenni abbiamo fatto la comunione sotto il Governo Tambroni e la cresima con il governo Moro, ma non abbiamo avuto il tempo di sentirci dire se eravamo intolleranti al lattosio o al glutine e mentre i carri armati entravano a Budapest, eravamo ancora intenti a studiare la “Cavallina storna”.

Piacenza d’estate erano tante auto in coda lungo la Valtrebbia, l’anguriara di Varesi, le granite con molto sciroppo alla menta e tanti zuccheri, accanto a inesorabili quanto inutili priodi di sofferenza alle colonie di Misano e Clusone, perché un medico aveva detto che ci voleva il mare. Noi, che oggi veleggiamo sotto i sessanta, abbiamo assistito alla mutazione antropologica di operai che, anziché cantare l’Internazionale, si dilettavano a corteggiare la loro futura moglie con l’ultima canzone del Festivalbar.

Paradossalmente abbiamo visto tutto e non ci hanno mai fatto vedere niente, ma abbiamo visto passare la Madonna pellegrina anche i comunisti avevano le lacrime agli occhi, era il 1960 e l’Arena Daturi fu vista così gremita soltanto con l’arrivo a Piacenza del presidente della Repubblica, Sandro Perini e di Papa Giovanni Paolo II.

Il nostro ricordo arrivava comunque fino al Papa Buono (ben diverso da quello di Sorrentino); a quando Giovanni XXIII si è messo a guardare la luna in mezzo alla processione del Venerdì Santo e ci ha puntato il dito sopra. Fortunati noi che abbiamo avuto la sua carezza per tramite delle inesauribili mani delle nostre madri.

Abbiamo goduto delle battaglie dei padri, degli scioperi per lo straordinario e per il contratto, ma quando si è trattato di lottare, i figli della Repubblica italiana hanno mandato a fuoco tutto. Non per la “rivoluzione”, risibile per le sue conseguenze materiali, devastante per quelle immateriali, valoriali, culturali, etiche. Noi, schiacciati dai rampolli irrequieti della borghesia di buona famiglia, abbiamo rinnegato la nostra, quella che con semplicità e laboriosità ci aveva cresciuti e così ci siamo tirati addosso dannazioni – e bastonate – che quegli altri erano abili a schivare.

Poi? Poi è finito tutto, i rampolli sono tornati a fare i rampolli – magari scrivendo editoriali sui giornaloni di regime – e noi, figli degli ex operai ci siamo trovati con un mondo devastato negli affetti, nei legami, nelle sue forme di vita. Beati i primi, perché saranno primi anche nel regno dei cieli – ammoniva il sarcastico Borges nella sua riscrittura dei Dieci Comandamenti – ed è stato così. Purtroppo.

Piacenza ha assistito immobile come sempre a questi cambiamenti epocali, ha creduto che il metano di Mattei fosse petrolio, che il Piacenza in serie A sarebbe stato un diritto acquisito, che il meglio aveva i colori del papavero e della lavanda.

Niente di tutto questo, Piacenza ha perduto i propri centri direzionali e noi, sessantenni ingrigiti, notiamo questa devastazione, non ci esaltiamo dinanzi alla logistica o al nuovo ospedale; siamo perplessi, di tutto e con tutti. Non volevamo la luna, semplicemente un po’ di fantasia.

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