Web Side Story, primo incontro tra studenti e istituzioni. E’ la strada giusta?

La matassa da sbrogliare è complicata. Da un lato abbiamo i “giovani”, categoria estremamente difficile da definire, di cui in genere ci si ricorda solo quando commettono reati o si macchiano di comportamenti inadeguati. Dall’altra abbiamo le “istituzioni”, scuole, società sportive, forse ancora qualche parrocchia, che con i ragazzi lavorano quotidianamente.

Ma ci sono anche le istituzioni superiori a quelle citate, le amministrazioni comunali con gli assessorati alle politiche giovanili, ad esempio, che hanno il dovere e il mandato di occuparsi dei cittadini di domani. Tutti convinti che il disagio giovanile sia una vera e propria emergenza sociale, territoriale e nazionale.

A Piacenza nelle scorse settimane è stato firmato un “Protocollo d’intesa per la creazione di un modello operativo innovativo di dialogo intergenerazionale ed interistituzionale per la prevenzione strutturale del disagio giovanile”, fortemente voluto dal Prefetto Maurizio Falco, con il Comune di Piacenza e l’Ufficio Scolastico Provinciale.

Titolo decisamente altisonante e forse non propriamente idoneo ad aprire un dialogo con i sedicenni e dintorni (ma questa è opinione personale). E al Teatro Gioia è andato in scena l’atto primo di una serie di incontri che affronteranno il tema del bullismo e del cyberbullismo.

Invitati, alla presenza del Prefetto e del sindaco (nonché presidente della Provincia) Patrizia Barbieri, studenti, insegnanti e genitori del liceo Gioia, chiamati a raccontare la loro esperienza.

Un’occasione di dialogo e confronto, si è detto. Ma come sempre accade, quando si apre un cassetto, vi si trovano oggetti inattesi piuttosto che quelli cercati: ci si accorge per esempio che le famigerate risse notturne che hanno portato Piacenza alla ribalta nazionale sono già archiviate come “passate” nella mente di ragazzi che vivono un eterno presente.

Che il disagio non è solo figlio dei social: un’insegnante del liceo Gioia, Angela Portesi, ricorda l’impegno speso per anni contro le stragi del sabato sera, ora passate di moda, tra le istituzioni e sui media, ma non certo interrotte. La palla non è stata colta dagli organizzatori, perché allontanava dal tema.

Ma il punto è proprio questo: quando si ha che fare con i ragazzi, è impossibile prevedere dove si arriverà, che cosa diranno nel caso in cui – ed è già una fortuna – si fideranno abbastanza per esprimere il proprio pensiero.

E in genere questo non avviene in pubblico, davanti a un microfono o in televisione; li accusiamo di essere distaccati dalla realtà e residenti nel mondo della Rete, ma spesso i tentativi di parlare con loro utilizzano proprio questi mezzi, anziché il meno mediatico ma più efficace sistema “a quattr’occhi”. In quel caso sì, che si aprono davvero.

La matassa è complicata, dicevamo, ancora più del previsto. E in tutte le ricerche fatte negli ultimi vent’anni sul mondo giovanile, un dato non è mai cambiato: i bisogni più indicati dai ragazzi sono “essere ascoltati” e “avere spazi a disposizione” dove ritrovarsi.

Piacenza non offre che bar e pizzerie, la sera. Il cinema è costosissimo. Non ci sono luoghi di aggregazione pubblici. Gli autobus non viaggiano. Verrebbe da pensare che la principale fonte di disagio per i giovani piacentini sia che nessuno investe su di loro, se non la scuola. La stessa scuola che spesso è nel mirino perché ritenuta inadeguata, ma che è la sola a non mollare mai il colpo.

Il problema di questi ragazzi è che sono figli di una società composta di individui sempre più autocentrati, che passano un sacco di tempo da soli davanti a schermi vari e quello che un tempo si imparava quasi senza rendersene conto oggi lo devono imparare in laboratori scolastici organizzati ad hoc: stare insieme agli altri.

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