Janet, Bosco e gli studenti del Gioia: storie di riscatto dall’Africa

Il liceo “Gioia” apre le porte ai ragazzi di Africa Mission e il disagio diventa opportunità

Può il disagio, anche quello più profondo, trasformarsi in opportunità per il futuro? Sembrano gridare di sì Bosco Lusagala e Janet Akwag, collaboratori ugandesi dell’associazione internazionale di Cooperazione e Sviluppo Africa Mission, con le loro potenti storie di vita e di lavoro.

I due ospiti si sono raccontati al Liceo Gioia di Piacenza: davanti a ragazzi più giovani e certamente da sempre più fortunati di loro. Ma che, come loro, possono diventare agenti di cambiamento positivo nella società e nel mondo, attraverso la conoscenza.

Ex “bambino scalzo”, fuggito a causa del genocidio in Ruanda, Bosco è oggi diventato dirigente di una scuola con 735 bambini; costruita tra fatiscenti baraccopoli nelle peferie di Kampala, capitale dell’Uganda. Janet, inizialmente semplice volontaria di Africa Mission nella regione arida e ancora culturamente arretrata del Karamoja – vasto altopiano a nord-est Uganda – oggi è laureata e project manager in numerose iniziative volte alla prevenzione di fenomeni sociali che ancora segnano gravemente la regione africana del Karamoja: violenza di genere, mutilazione genitale femminile, stigma dei sieropositivi. In generale progetti educativi di tutela e recupero di bambini e donne a rischio, molti dei quali realizzati in sinergia con Unicef.

“Non sarà facile raccontare la mia vita in pochi minuti – ha detto Bosco Lusagala davanti ad un pubblico di studenti che, nonostante l’accento di un inglese non proprio british, cercava di seguire attentamente il discorso – ” E ringrazio tutti voi di essere qui ad ascoltarmi”. A tradurre, almeno i concetti chiave, ci ha pensato Paolo Strona, docente di Storia dell’Arte presso il Liceo e da anni collaboratore attivo di Africa Mission.

Africa Mission al Gioia

“Non è stato certo semplice per me fuggire dal Ruanda, con metà famiglia massacrata dal genocidio e l’altra metà dispersa durante il viaggio – ha proseguito Bosco -, ma la vita è stata difficile anche nel campo profughi che per un periodo mi ha accolto verso ovest: senza cibo, in condizioni igenico-sanitarie disumane. O tra gli slum (baraccopoli) pieni di fame, povertà, giovani senza futuro. Che per stordirsi finivano per perdersi nella droga”.

“Solo con la possibilità di studiare, che mi hanno offerto i padri missionari operanti negli slum la mia vita è cambiata davvero – ha spiegato -. Soprattutto grazie a Padre Valente, missionario dei Comboniani, ho potuto laurearmi e diventare insegnante, proseguendo poi la sua opera di aiuto verso i meno fortunati. È da qui che nasce l’idea della Great Walley, la scuola costruita tra le baraccopoli di Kampala che oggi dirigo”.

“Un progetto – ha precisato – di non facile realizzazione, ma cresciuto nel tempo: siamo passati da una scuola con 104 iscritti, costituita da baracche in legno presistenti, ad una vera e propria boarding school – un collegio – di 732 bambini, edificata in un luogo specificamente individuato. Una casa è stata adattata a scuola, mantenendo però cucina e stanze da letto”. Per pagare? “Non servono soldi” – spiega -, basta usare le proprie passioni, canto, danza, calcio, al servizio della comunità. E gli ambiziosi risultati a cui questa preziosa scuola primaria dà accesso sono spesso tali da garantire borse di studio per il percorso accedemico successivo”.

Africa Mission al Gioia

Dei returnees che segue in Karamoja ha invece parlato Janet: bambini rimpatriati dalla capitale nella regione rurale d’origne. “Venduti a parenti di città per tentare di sfuggire a fame, violenze domestiche, matrimoni combinati – ha spiegato -, in realtà questi bambini, gettati nelle aree urbane, si ritrovano poi anche peggio di prima. Neppure più all’ombra di quella struttura sociale che, per quanto tribale, li proteggeva. Elemosina e violenze, raccolta di fagioli caduti dai camion o dagli alberi per mangiarli, diventanto per loro la norma. Tanto da decidere di tornare in Karamoja. Una terra che rimane piena di problemi”.

“Per questo è necessario lavorare alla radice del problema – ha sottolineato Janet Akwag -, evitando così che i bambini siano costretti a migrare. E costruire un processo di formazione, consapevolezza critica e professionalizzazione all’interno della comunità è senz’altro una strada impegnativa, ma anche la sola efficace”. “Verso una cultura – ha concluso – che vede la donna solo moglie e madre, centro assoluto ed esclusivo dell’economia domestica. Tanto da poter e dover subire violenze maschili per non essere considerata poco seria. Mentre l’uomo, spesso ancora pastore di mandrie, al rientro può disporre come vuole delle femmine”.

Una cultura quindi in cui il dialogo costante è il primo vero agente di cambiamento. Perchè il mutamento è possibile, certo. Ma non basta volerlo. Bisogna avere l’opportunità di realizzarlo e, soprattutto, saperla cogliere. Ma senza la conoscenza nessun cambiamento potrà mai avvenire. Questo ci hanno dimostrato Bosco e Janet con le loro storie.

Micaela Ghisoni

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