Il coronavirus in America? “Meglio non sapere” LA TESTIMONIANZA

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La testimonianza di Corrado Confalonieri, piacentino. Vive negli Stati Uniti dal 2014, e oggi insegna lingua e letteratura italiana alla Wesleyan University, nello Stato del Connecticut. 

Meglio non sapere.

La prima volta in cui  ho scritto un articolo per “PiacenzaSera” dagli Stati Uniti ero a New York da poche settimane. Arrivò Sandy, l’uragano. Io ero in una residenza universitaria a Manhattan. Maratona cancellata, un paio di giorni di chiusure (la biblioteca in cui studiavo, Central Park), qualche disagio con la metropolitana ma solo nella parte bassa della città, poi tutto tornò più o meno come prima – ai miei occhi. Sarebbe bastato fare qualche decina di chilometri sulla costa, in New Jersey, per vedere allagamenti, case distrutte, una rovina che avrebbe avuto conseguenze per anni. Scrivendo che New York era ripartita subito non avevo detto niente di falso, dal mio punto di vista. Ma era il mio punto di vista, e niente di più.

Ho provato un po’ di vergogna per quella testimonianza, tempo dopo, conoscendo persone che con quella tempesta avevano perso la casa. Che lo volessi o no, avevo innescato una catena, questa: non vedo > non so > non è. Il problema è che chi legge può fermarsi al “non è”, e l’ignoranza di chi scrive – la mia, che ne sapevo poco – può diventare una rassicurazione infida per chi legge.

Cosa c’entra questo col coronavirus e gli Stati Uniti? Dal novembre 2012 di Sandy sono passati sette anni mezzo. Sei di questi li ho passati negli Stati Uniti: prima a New York, poi un lungo periodo a Boston, ora in Connecticut. Non mi illudo di aver imparato ad andare molto al di là di quello che posso vedere, mi auguro che aver riflettuto su questo limite possa aiutare a superarlo un po’.

Qualche settimana fa – sembra molto più tempo, ma si potrebbe ancora contare a giorni più che a settimane – iniziano a diffondersi nel mondo il virus e le notizie sul virus. L’Italia è al centro di entrambe le cose, anzi, per molti è il nuovo epicentro di diffusione del contagio, quello che ha sostituito la Cina (pensate alle polemiche sulla mappa mostrata dalla CNN). Di fronte al rapido peggiorare della situazione, gli Stati Uniti alzano il livello di guardia verso i viaggi in Italia: su una scala da 1 a 4 che indica la pericolosità di una destinazione (da “prendere normali precauzioni” a “non viaggiare”), l’Italia, che era a 2 (“prendere maggiori precauzioni rispetto alla norma”, e questo per terrorismo, come Francia e Germania, col particolare non trascurabile che in Francia e in Germania ci sono stati vari attentati negli ultimi anni, ma in Italia no) passa nel giro di poche ore a 3 (“riconsiderare i viaggi”) e, limitatamente a Lombardia e Veneto, a livello 4 (“non viaggiare”, appunto, con conseguente sospensione dei voli per Malpensa di American Airlines e Delta e un’ondata di cancellazioni e richieste di rimborsi).

Nel frattempo gli Stati Uniti – ne parla in una conferenza stampa il vicepresidente Mike Pence – prendono accordi con l’Italia perché ai passeggeri in partenza per l’America venga misurata la febbre al momento dell’imbarco. Fin qui le decisioni del governo federale, che rimangono ancora invariate (sono state prese nello scorso fine settimana). Ma questo è soltanto l’inizio di una serie di ulteriori decisioni di altre ‘autorità’, tra cui le università. Si è parlato in Italia dell’immediato rientro degli studenti americani da Firenze (dove in quel momento c’erano pochissimi casi di contagio), sede di molti programmi di studio all’estero. Lo stesso è accaduto in altre città e in breve a tutti i programmi. L’università dove lavoro (Wesleyan University) gestisce un programma interuniversitario a Bologna, con qualche decina di studenti: evacuato anche quello, tutti rientrati negli Stati Uniti.

Nel frattempo vengono emanate nuove regole sui viaggi. Regole decise dalle università, non dal governo. Per stare alla mia: a tutti, studenti e professori, si chiede di compilare un modulo per informare di ogni spostamento al di fuori del Connecticut e si sospende qualunque viaggio universitario all’estero, chiedendo a tutti di adottare le stesse misure sui viaggi personali. Era un provvedimento che temevo, e a cui ero preparato. Pur avendo programmato un rientro in Italia di due settimane con biglietto acquistato già a novembre (ho famiglia in Italia, a Reggio Emilia, e sapevo di dover finire una ricerca per un saggio sul Rinascimento italiano da presentare ad aprile), avrei a malincuore rinunciato al viaggio. Purtroppo la mia situazione è cambiata nelle ultime settimane, per un’improvvisa emergenza familiare. Mi sono trovato così nella condizione di dover affrontare le cose in modo più personale, con un coinvolgimento diretto.

Prima che prendessi contatto con l’amministrazione per valutare la possibilità di un viaggio, ricevo il messaggio che l’università manda a tutti i suoi membri. Mi colpisce il passaggio in cui si dice che – traduco – “al momento”, era mercoledì 4 marzo, “non ci sono casi confermati o sospetti di COVID-19 a Wesleyan o in Connecticut. Mentre il virus continua a diffondersi negli Stati Uniti e nel mondo, il team di emergenza di Wesleyan lavora attivamente per assicurare una pronta risposta all’epidemia. La salute e la sicurezza continuano a essere delle priorità per questa università”. In procinto di vedermi vietare un viaggio che a questo punto sarebbe per me molto importante – e di vedermelo vietare non dal governo americano, ma dall’università che ha appena scritto questo messaggio – scrivo all’amministrazione per chiedere un chiarimento sul modo in cui si sta gestendo l’emergenza.

Ricordo all’amministrazione un episodio che mi è accaduto in campus nelle settimane precedenti. In uno dei miei tre corsi, uno studente rimane assente per malattia lunedì 10 febbraio (giustificazione dello studente, non del centro medico dell’università che dovrebbe averlo in cura); rientra mercoledì 12, ma sta ancora visibilmente male; venerdì 14 – il corso si svolge in tre lezioni settimanali: lunedì, mercoledì e venerdì – resta di nuovo a casa, perché si è svegliato, mi scrive, “con la febbre”. La settimana successiva mi dice di essere stato al centro medico dell’università, senza specificarmi che cosa gli hanno detto (naturalmente non sono tenuto a chiederlo né a saperlo, per ragioni di privacy). Torna in classe, ma evidentemente non si è ripreso: starnuti, occhi gonfi, fatica a respirare per tutta l’ora di lezione, e questa condizione si ripete senza miglioramenti mercoledì 19, venerdì 21 e ancora per tutta la settimana successiva (24, 26 e 28 febbraio).

Nella serata di domenica 1 marzo, lo studente mi scrive che il “brutto raffreddore che aveva la settimana scorsa” (ma a questo punto le settimane sono tre) è diventato un “virus più serio”, e dopo “due giorni di febbre alta” i suoi familiari sono venuti a prenderlo per riportarlo a casa, per cui tornerà in campus solo dopo la pausa primaverile (le lezioni dovevano continuare fino a venerdì 6 e riprendere lunedì 23 marzo). Preoccupato da sintomi che vanno avanti da settimane e condizionato da quello che sta succedendo un po’ ovunque, scrivo un messaggio all’ufficio che si occupa degli studenti del primo anno per chiedere se sia al corrente della situazione. Non ricevo alcuna risposta (mentre so per esperienza che la riceverei, l’avevo ricevuta dallo stesso ufficio in autunno, se segnalassi che il rendimento di uno studente è al di sotto delle attese).

Racconto l’episodio all’amministrazione, al dirigente che aveva scritto che la salute e la sicurezza erano delle priorità per l’università. Faccio notare che l’idea della priorità si concilia male con la scarsa considerazione per un caso come quello che ho provveduto a segnalare. Non voglio dire che si tratti di coronavirus (e infatti non nomino il COVID-19, neppure per preterizione), ma non capisco come da un lato si possano vietare i viaggi per i rischi legati alla salute – nel frattempo, sempre l’università e non il governo ha stabilito una quarantena di 14 giorni per chi visiti o abbia visitato l’Italia – e dall’altro si sottovaluti la situazione potenzialmente pericolosa di uno studente.

Risposta: “Capisco la tua logica e può anche essere corretta, ma l’università ha deciso di imporre l’isolamento a chi torna da paesi come l’Italia” – tutta, faccio notare, non solo Lombardia e Veneto, uniche zone rosse al momento – “e dobbiamo esercitare molta attenzione dato che siamo responsabili per così tante persone”. Continuo a non capire come si possa credere di agire responsabilmente nei confronti di qualche migliaio di studenti – che spesso vivono in dormitori, non in stanze singole, con bagni e cucine condivisi – non rispondendo a una segnalazione come la mia, ma mi rendo conto che è inutile proseguire la conversazione.

Poche ore dopo, entrando in biblioteca, prendo in mano distrattamente una copia di “The Wesleyan Argus”, il giornale dell’università scritto in gran parte dagli studenti. Titolo dell’articolo principale (3 marzo): “Aumento impressionante delle visite degli studenti al centro medico per malattie di tipo influenzale rispetto allo scorso anno”. Le malattie di tipo influenzale sono le influenza-like illnesseses, acronimo ILI. Cerco di capire meglio di cosa si tratti, ma prima i numeri. Nell’articolo si scrive che nelle prime cinque settimane del semestre primaverile (iniziato il 24 gennaio, quindi il periodo riguarda l’ultima settimana di gennaio e tutto febbraio), nel 2019 c’erano state 21 visite degli studenti al centro medico; nel 2020, nello stesso periodo, le visite sono state 196. Gli studenti di Wesleyan sono più di tremila. Incremento in percentuale: 833%. Nell’articolo si accenna inevitabilmente al coronavirus, e già la prima frase sbalordisce: “il recente aumento di casi di COVID-19 ha causato preoccupazione, ma il direttore del centro medico non crede che questa sia la ragione per i casi di tipo influenzale e per le tante visite di questo semestre”.

Il direttore, un medico, does not believe, “non crede”. Su che basi? Continuo a leggere, segue un virgolettato del medico: “Non penso che il coronavirus sia la ragione dell’aumento di visite perché abbiamo provveduto a raccogliere e diffondere informazioni sulla patologia. Non ci sono casi in Connecticut, e sulla costa Est ce n’è uno solo, a Boston. Ho l’impressione (What I’m sensing) che quando parlo con gli studenti che vengono qui non dicano ‘Accidenti, penso di avere il coronavirus’. Dicono invece, ‘Accidenti, penso di avere l’influenza’”. Tamponi? Nessuno. L’università – che pure ha l’autorità per affermare che non ci sono casi – non ne fa, lo stato (il Connecticut, ma vale anche per gli altri stati americani) non ne fa o ne fa pochi. Sono cari, lo avrete sentito. Questo vuol dire che se anche ci fossero, e come tutti spero che non ce ne siano, gli eventuali casi di coronavirus sarebbero diagnosticati o non diagnosticati sulla base di parole come quelle che avete letto: avere l’impressione, “to sense”; credere, “believe”.

Rispetto al momento in cui il medico ha parlato, lo stato di New York ha scoperto qualche decina di casi e dichiarato l’emergenza; dell’Italia sappiamo, fino al nuovo decreto di questa notte. La situazione cambierà, e le mie parole saranno presto superate. Come tutti, spero di rileggerle quando questa emergenza sarà finita e magari di ricordarmi a malapena lo stato d’animo che avevo quando le ho scritte. Mi auguro che succeda presto; ma presto o tardi che sia, non dimenticherò che quel principio di cui personalmente mi rimprovero ancora l’irresponsabilità avuta per Sandy – meglio non sapere – è lo stesso che alcune delle autorità che si stanno facendo carico di gestire l’emergenza coronavirus negli Stati Uniti adottano in questi giorni.

Corrado Confalonieri

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