Quella battaglia di 75 anni fa che merita di essere ricordata

Era ormai sera, alla fine della battaglia, fischiavano in aria gli ultimi colpi, quando mi chiamò il comandante Muro: “Vieni fuori con me”.

Uscimmo dal castello per scendere lungo la scaletta che conduceva agli scantinati. “Andiamo a vedere lì sotto – disse Muro – probabilmente qualcuno di loro si è rintanato”. Ci trovammo davanti a un porta chiusa, una spinta e l’uscio si aprì. Davanti a noi si presentarono tre o forse quattro fascisti con le mani alzate. Ci imploravano di non sparare, urlavano e tremavano “non abbiamo fatto niente”. Avevo il mio Bren proprio puntato contro di loro. Non ho mai ammazzato nessuno a sangue freddo, ma in quel momento lì probabilmente il grilletto lo avrei premuto, se fossi stato da solo. Muro era accanto a me, mi guardò e capì quello che mi stava passando per la testa. Appoggiò la sua mano sulla canna del mitra e la spinse verso terra. Facemmo uscire i fascisti che vennero fatti prigionieri. Poco più tardi, quando ci ritrovammo da soli, Muro mi avvicinò e mi guardò negli occhi: “Mai un lavoro di quel genere, mai!”

Quest’anno non si è tenuta la commemorazione della battaglia di Monticello. Sarebbe stata la 75esima di uno degli eventi bellici della lotta di Liberazione più importante (forse il più imporante) della nostra provincia. Monticello è un piccolo castello che si affaccia sulle prime colline della Val Luretta, sul crinale con la Val Trebbia: un posto facilmente raggiungibile dalla città e allo stesso tempo appartato. In prossimità di una curva, proprio ai piedi dell’edificio si staglia la statua del Valoroso, il comandante partigiano Lino Vescovi che morì in battaglia ed ebbe un ruolo decisivo per la vittoria della Resistenza.

Nella notte fra il 15 e il 16 aprile del 1945, in soccorso dei 32 partigiani, assediati per diverse ore nel castello, arrivarono una decina di uomini provenienti da Monteventano sotto la guida del Valoroso: la battaglia – spogliata di una certa retorica trionfalistica – fu una storia collettiva fatta di tante vicende individuali. Quelle dei singoli combattenti che – armati fino ai denti (il castello era una sorta di deposito di armi) – non si arresero fino alla ritirata dei nazifascisti in netta superiorità numerica. Fu una vittoria di grande valore per la Resistenza piacentina conseguita a pochi giorni dalla Liberazione. Per celebrare a dovere l’anniversario di Monticello ci affidiamo al racconto di uno dei superstiti della battaglia, il partigiano “Abele” Renato Cravedi che nel suo libro autobiografico ricorda così i fatti della primavera di 75 anni fa, lui aveva 18 anni.

La notte prima della battaglia. Nel castello ci acconciammo per trascorrere la notte: io avevo il mio giaciglio di paglia ai piedi di una delle finestre. Venne il momento di concordare i turni di guardia ai quattro angoli del castello, ogni gruppo partigiano che occupava un lato dell’edificio non era infatti nelle condizioni di comunicare direttamente con gli altri, l’unico modo di collegarsi era uscire allo scoperto. Ma quella notte non c’era molta voglia di vegliare. Qualcuno disse al mio gruppo: “Ragazzi dormiamo, tanto i tedeschi se ne sono andati via”. Già altre volte era capitato che i miei compagni non volessero fare la guardia, io invece ero preciso su una questione così importante, non tolleravo l’imprudenza. Ci fu una discussione, dissi ai miei compagni: “Non approfittiamone, montiamo la guardia perchè non siamo sicuri…” Mi risposero: “Sei sempre il solito”. Così quella notte nel nostro angolo di castello non c’era nessuno di sentinella. Non mi spogliai del tutto, mi tolsi soltanto il cinturone del caricatore del Bren, il mitra. Mi misi seduto contro la finestra ma non riuscii ad addormentarmi. Quando era già notte fonda, mi alzai perché avvertii dei rumori. Mi affacciai alla finestra e nell’oscurità scorsi un “disastro” di fascisti, con la loro divisa grigio verde, che erano già appostati sotto alle mura del castello tutt’intorno.

Bussano alla porta. Saltai addosso ai miei compagni, li svegliai: “Ragazzi siamo accerchiati, li abbiamo addosso”. Tutti cominciarono a vestirsi di corsa, mentre io dalla finestra vidi la scena e ascoltai il dialogo che fece scattare la battaglia. Un gruppo di loro si avvicinò alla porta della torre del castello, salì i gradini e bussò. Un alpino della VII Brigata si affacciò dalla finestra per conferire. Loro dissero di essere circa in cinquecento, non ricordo con esattezza, dissero che ci avevano accerchiato e ci chiesero la resa. L’alpino prese tempo: “Un attimo, che vado a cercare il comandante”. Ma non ci fu troppo da pensare sul da farsi, il comandante prese una bomba anticarro da un chilo di tritolo e la lasciò cadere giù. Quella fu la risposta e anche l’inizio della battaglia. Cosa feci io? Presi il Bren, lo poggiai sulla finestra e cominciai a sparare. Il castello era pieno di munizioni e armi, basti pensare che la mia squadra aveva a disposizione un panzerfaust e non eravamo neppure capaci di usarlo. Noi eravamo in una trentina, armati fino ai denti, ma loro erano certamente in più di quattrocento.

Nel castello c’erano due entrate, quella sul retro era stata barricata con assi e materiale vario, mentre davanti il passaggio del portone era spalancato. Corsi giù dalla scala e vidi, in lontananza, che dalla chiesa stavano sopraggiungendo i nemici. Allora mi spostai di lato e pensai a cosa fare, ero da solo… Li lasciai avvicinare e quando si trovarono a un certa distanza lanciai nella loro direzione una bomba anticarro, poi cominciai a sparare e tornai al primo piano. La battaglia era iniziata su più fronti, uno degli obiettivi era la torre campanaria, sulla sua sommità erano rintanati in tre o quattro. Per scendere non potevano passare dalla chiesa, ma erano costretti a uscire all’esterno. Erano intrappolati là in alto e bersaglio del fuoco nemico, le campane alla fine erano rimaste crivellate di colpi.

Renato Cravedi a Monticello

Non svegliate le chiocce. La battaglia era di un’intensità tale… La mia squadra era asserragliata nella stanza del granaio, dove c’erano le chiocce intente a covare le uova. In quei giorni sarebbero dovuti nascere i pulcini. Ricordo che eravamo stati raccomandati dalle contadine, “Ragazzi, se potete non fate troppo baccano, per non disturbare le chiocce, devono nascere i pulcini”. Ma con quello che accadde, le uova non si schiusero di certo quella notte.

La difesa strenua del castello. Dopo i lanci delle bombe i fascisti si allontanarono dalle mura, riparando nel boschetto a poca distanza. La primavera era avanzata e gli alberi avevano già messo i fiori e le foglie, così trovarono l’ambiente adatto per nascondersi. Ricordo che all’improvviso, nel bel mezzo della battaglia, la sparatoria cessò del tutto, e precipitammo nel silenzio assoluto. Poi, qualcuno di loro col megafono ci lanciò un ultimatum: “Non avete via di scampo, se vi arrendete non vi sarà fatto nulla”.

Ma noi non avevamo nessuna volontà di cedere, anzi ci sentivamo abbastanza sicuri, pieni di munizioni, e poi confidavamo nella parola data dal Valoroso qualche giorno prima al nostro comandante: in caso di attacco, si sarebbe mosso dal presidio di Monteventano per portare il suo aiuto. E infatti andò così: era l’alba quando giunsero i rinforzi comandati da Lino Vescovi. Salirono fin sotto al castello, aprendosi un varco nell’accerchiamento nemico. Io ero fuori con Gino Cerri per andare loro incontro vicino al Podere Fragola, il gruppo di case poco più a valle. C’era un muretto di sassi dove riparammo. Qui arrivò il Valoroso, con i suoi uomini. Tra noi e il castello c’era una macchia di vegetazione, dove erano nascosti due o tre fascisti che sparavano. Cerri si rivolse a me, che avevo il Bren: “Vieni con me che andiamo a stanarli…” “Va bene, ma questo è l’ultimo caricatore”, risposi. Lui esitò un attimo e poi disse: “Allora vado io, quando torno ti porto le munizioni”.

Intanto la sparatoria infuriava senza tregua, uno dei nostri fu colpito in pieno in un occhio, e la pallottola uscì dall’altra parte ferendolo gravemente. Un altro di noi uscì dal muretto, uno sparo lo prese al capo uccidendolo sul colpo. Il Valoroso di fronte a quella scena non si tenne più, saltò fuori dalla trincea urlando “Avantiiii!” per andare a snidare i fascisti. Ma fu proprio durante quell’assalto che venne falciato da una raffica che lo ferì a morte. Ma non morì subito, fu portato nella casa di alcuni contadini a Fragola, dove si spense. C’è chi ha riferito che le ultime parole pronunciate in punto di morte fossero: “Non trattate male i prigionieri”. E’ leggenda, prima di tutto perché il Valoroso non era uomo che potesse dire una cosa così, e poi era veramente morente, privo di sensi.

Il grande, immenso merito del Valoroso è stato sostanzialmente uno: quello di aver mantenuto la parola, a costo di sacrificare la vita. Aveva promesso di accorrere da Monteventano in nostro aiuto in caso di attacco nemico. E’ venuto ed è stato ucciso, altro che medaglia d’argento meritava…Anche Gino Cerri cadde in uno scontro ravvicinato coi nemici, ricordo che sentii sparare e subito dopo uscii per vedere. Cerri era coricato di fianco con un braccio disteso, di fronte a lui il fascista in una posizione del tutto speculare. Probabilmente fecero fuoco contemporaneamente, ricordo che mi avvicinai a lui mentre era esanime e lo girai, aveva una piccola macchia rossa proprio all’altezza del cuore.

Prigionieri. I prigionieri erano stati disposti sul campo sul retro del castello: da un lato i vivi, e dall’altro quelli rimasti feriti stesi a terra. C’era chi soffriva per le ferite. Passai in mezzo a loro, sentii i loro lamenti, “Mamma, mamma, acqua” erano le invocazioni più ricorrenti. Mi accostai al primo che giaceva a terra, gli sollevai la testa, era morente. Allora mi rivolsi a uno dei prigionieri non feriti: “Vieni qui, vai a prendere nell’abitazione una scodella d’acqua, dai da bere ai tuoi compagni che implorano”. Lui mi rispose “Che si arrangino” e mi girò le spalle per tornare nel gruppo. L’unica cosa che potei fare fu quella di dargli una bella pedata nella schiena. Andai nella casa vicina, presi un scodella e la riempii d’acqua, tornai fuori e mi avvicinai ai prigionieri, e uno alla volta diedi un sorso a tutti quelli che potei. E basta. Poi li portarono via.

Commenti

L'email è richiesta ma non verrà mostrata ai visitatori. Il contenuto di questo commento esprime il pensiero dell'autore e non rappresenta la linea editoriale di PiacenzaSera, che rimane autonoma e indipendente. I messaggi inclusi nei commenti non sono testi giornalistici, ma post inviati dai singoli lettori che possono essere automaticamente pubblicati senza filtro preventivo. I commenti che includano uno o più link a siti esterni verranno rimossi in automatico dal sistema.