“Partiamo dalle nostre radici, per ritrovare l’energia necessaria a ricostruire il futuro”

“Eclettismo e ricerca di linguaggi sempre nuovi, per incontrare e suscitare riflessioni che superino la reazione immediata, continuando nella memoria dello spettatore”. Queste le parole d’ordine per l’artista Riccardo Buscarini, giovane coreografo all’età di 35 anni già pienamente affermato sulla scena internazionale.

Il suo lavoro si focalizza sul mutamento continuo dell’approccio creativo alla coreografia e sulle interazioni con altre forme d’arte. Numerosi progetti e collaborazioni lo hanno visto coinvolto nei campi della musica e danza contemporanea, architettura, installazione, opera e moda.

Formatosi presso l’Accademia “Domenichino da Piacenza”, nel 2009 Riccardo Buscarini ottiene il diploma presso la London Contemporary Dance School.

Nel 2013 vince The Place Prize con Athletes: è l’inizio di una carriera che andrà sempre ben oltre i confini italiani, con la partecipazione ai progetti internazionali di ricerca ArtsCross London 2013 (Regno Unito, Taiwan e Cina), Performing Gender 2013-15 (Italia, Croazia, Spagna, Paesi Bassi) e MAM-Maroc Artist Meeting (Marrakech).

Il suo lavoro nel campo delle arti visive comprende una mostra commissionata da Summerhall (Edimburgo), due nstallazioni parte di London Festival of Architecture 2016 e 2019 e una collaborazione con la galleria Nahmad Projects (Londra) presentata durante la mostra “i’m NOT Tino Sehgal” curata da Francesco Bonami e durante Miart – fiera di arte moderna e contemporanea di Milano 2017.

Silk, la sua creazione per il Chelyabinsk Contemporary Dance Theatre (Russia), è stata nominata quale Best Production e Riccardo Buscarini come Best Choreographer della stagione 2016/17 presso il Golden Mask Festival al Teatro Bolshoi, Mosca.

Negli ultimi anni si è avvicinato alla regia d’opera dirigendo Don Pasquale (G. Donizetti), Il Barbiere di Siviglia (G. Rossini), Madama Butterfly (G. Puccini) in collaborazione con Giuseppina Campolonghi per Associazione Amici della Lirica Piacenza e come coreografo/assistente di Italo Nunziata (La forza del destino) e Leonardo Lidi (Falstaff), nuove produzione del Teatro Municipale di Piacenza, Teatro Comunale L. Pavarotti di Modena e Teatro Valli di Reggio Emilia. Nel 2020 è artista commissionato da EDGE Dance Company (The Place) e dal 45º Cantiere Internazionale D’Arte di Montepulciano.

Abbiamo parlato con Riccardo Buscarini per capire meglio il suo modo di vedere l’arte, anche in un momento così difficile come quello che stiamo vivendo a causa della pandemia da Covid- 19.

Spettacoli Buscarini

Coreografo e amante della danza, hai vinto importanti premi in Italia e all’estero. Immagino sia emozionante e non sempre facile essere sulla scena internazionale alla tua giovane età.

Ho iniziato a danzare a 17 anni, e sono undici anni che lavoro come professionista. La mia idea è sempre stata quella di diventare un coreografo. Gli anni passano, ora sono 35, ma mi sento sempre “piccolo”. E questo secondo me è importante: sentirsi giovani, un po’ incoscienti, umili e un po’ insicuri, senza mai credere di sapere abbastanza, ma cercando sempre di migliorarsi e approfondire, curiosi di esplorare nuovi orizzonti. La scena internazionale? No, non mi spaventa, anzi mi arricchisce, culturalmente e professionalmente: il linguaggio del movimento è assolutamente transnazionale e, se il movimento è parte della mia via quotidiana, il viaggio lo è di quella professionale.

Nelle tue coreografie, esprimi forme e linguaggi sempre nuovi, senza fissare il punto d’arrivo. Dove ti porta questo flusso emotivo in continua espansione? Perché hai deciso di farne il centro della tua arte?

Credo che l’artista debba essere prima di tutto ricercatore di linguaggi diversi e collaborazioni nuove: per me eclettismo e versatilità sono due valori fondamentali dell’arte. Per questo, anche se sono ancora un giovane artista, cerco sempre di muovermi su più piani e su più linguaggi, in modo da creare lavori che siano speciali e – almeno per me – nuovi; per estendere il più possibile il mio raggio d’azione.

Tu hai viaggiato, portando opere in cui il corpo è protagonista in buona parte del mondo: tra Italia, Regno Unito, Spagna, Russia, Cina e Marocco. Che effetto ti fa il tempo sospeso e stagnante che stiamo vivendo ora? Con la tua versatilità e passione sono sicura abbia comunque modo di non fermarti.

Il lavoro si è fermato perché si sono fermati i teatri, ma non si è fermata la nostra vita: si è trasformata. Io ho continuato a scrivere idee e portare avanti collaborazioni.

Certo, ha fatto un effetto straniante la prima quarantena di marzo: da lì l’idea di viaggio è rimasta sospesa, tanto che da allora io sono fermo a Piacenza, io che ero abituato ad essere sempre con valigia e zaino in spalla.

Per fare un esempio soltanto, Silk, il mio lavoro premiato nel 2018 al Golden Mask Festival di Mosca, si basa proprio sull’idea di viaggio: il paesaggio siberiano e un viaggio da me fatto nell’aprile 2015 sulla Ferrovia Transiberiana. Viaggio come comunicazione e scambio, ma anche dimensione dell’attesa come sospensione temporale.

Frustrante è stato invece questo secondo lockdown, che sta mettendo alla prova la nostra pazienza e fiducia nel futuro. Io mi auguro che potremo trarne una lezione per agire diversamente dagli anni precedenti, almeno spero.

Devo dire che io sono comunque riuscito ad andare in scena quest’anno, quindi mi sento tra i fortunati.

So che di recente hai partecipato ad alcune proteste legate alle chiusure nel mondo dello spettacolo. Hanno avuto alcuni riscontri positivi? Come mai secondo te, in Italia più che in altri Paesi, la cultura sembra ormai un problema secondario?

Ho partecipato alla protesta davanti al Teatro alla Scala di Milano perché è importante far sentire la propria voce. E per sostenere in qualche modo chi, al contrario di me, non va in scena; tutte le maestranze che sono coinvolte nello spettacolo e non sono state considerate. Amici che lavorano come truccatori, sarti, parrucchieri, macchinisti. E poi ho protestato perché è stato ingiusto tenere i teatri chiusi quando a livello statistico si sono rivelati tra i luoghi più sicuri rispetto ai contagi. E nonostante questo sono stati chiusi proprio questi luoghi: i più antichi custodi della condivisione, della comunità, dell’intrattenimento e del racconto.

Per un riscontro concreto delle manifestazioni ci vorrà tempo.

Il problema della cultura oggi in Italia è un tasto dolente: abbiamo moltissimi teatri ed un enorme potenziale culturale inespresso sul quale dovremmo far leva, ma purtroppo non avviene.  Perché? Sicuramente è in atto una grande deriva culturale, iniziata con la televisione, che negli ultimi venti, trent’anni è diventata sempre più un contenitore spazzatura, e acuita poi dai social media, piattaforme di distanziamento fisico, che spesso, anziché favorire la condivisione di idee, veicolano frustrazione e superficialità.

Veniamo alla tua professione: sei un coreografo che da quando aveva 17 anni ha fatto della danza il centro della sua arte. Eppure dici di non esserti mai sentito un danzatore. Perché? In che modo queste due professioni sono diverse e complementari?

Ho sempre sentito importante esprimere le mie idee.  Il mio avvicinamento alla danza è stato un percorso derivato da altre forme d’arte: fin da bambino mi piaceva giocare e fare spettacoli con il mio teatro dei burattini, ho cantato nel coro del liceo e sempre avuto una buona manualità… La danza è arrivata dopo, come coronamento, forse perché è l’arte più essenziale di tutte. L’unica cosa di cui ha bisogno per esprimersi è il corpo, non servono altri strumenti. È molto singolare trovarsi ad essere allo stesso tempo soggetto e medium dell’espressione artistica. Considero questo l’aspetto più potente della danza.

Non mi sono mai sentito un danzatore perché non ho mai danzato per un’opera che non fosse una mia creazione, non ho mai danzato per qualcun altro; per altri ho solo creato. Credo che il danzatore debba avere un’attitudine particolare: quella di saper donare il proprio movimento e la propria creatività alla visione del coreografo. La danza in qualche modo sostiene la coreografia, che a sua volta è scrittura estetica della danza.

Si tratta quindi di due medium diversi: la coreografia forse più concettuale, mentre la danza più fisico e materico.

La sinergia tra corpo e spazio è centrale nella tua arte.

La relazione corpo-spazio- tempo è centrale per qualsiasi coreografo, non solo per me. Ma lo è anche per i danzatori e il pubblico, dal momento che principio fondamentale di interpretazione del teatro è la condivisione di identità che si incontrano per comunicare. La bellezza della danza in quanto arte del movimento, è poi che tutti abbiamo un corpo con il quale muoverci, e quindi tutti possiamo in qualche modo provare rispecchiarci in essa.

Per le connessioni universali che essa riesce a creare, poiché la nostra stessa presenza effimera si muove nello spazio e nel tempo, la danza non è altro che metafora della vita quotidiana.

I tuoi lavori sono tanti e variegati tra opere di scena, installazioni, musica, lirica e addirittura moda. In tale molteplicità si nota un tratto ricorrente: il conflitto e la compenetrazione di elementi contrastanti. Penso subito a “Athletes”, Silk”, “No lander” e molto altro. Parlami della caratteristica citata, attraverso i lavori che ritieni più significativi.

L’accostamento e il conflitto tra elementi contrastanti che in qualche modo trovano nell’opera un’armonia pur mantenendo la propria diversità, è senz’altro un tratto saliente del mio lavoro: ciò che soprattutto mi affascina è infatti l’ambiguità. Per me l’ambiguità è uno dei medium più importanti del teatro.

Senza questa tensione che si crea nello spettatore, provocata dall’uso sapiente del medium scenico, il teatro perde la propria essenza. Una tensione sempre viva che induce il pubblico a continuare a chiedersi che cosa sta guardando e che cosa sta sentendo; poiché ciò che più ci attrae è quello che non conosciamo, o conosciamo solo parzialmente. Ecco allora che le mie opere, tutte, seppure in modi differenti, schiudono insieme mistero e disvelamento, sospensione e identità; dimensioni con cui io stesso mi trovo a fare i conti sul piano personale, e quindi temi in parte autobiografici.

Pensando a come siamo oggi, “No Lander” mi sembra particolarmente significativo. Creazione del 2015 ha come tema centrale il naufragio dei migranti nel Mediterraneo. Ma oggi siamo tutti un po’ tutti naufraghi e sopravvissuti, aggrappati agli affetti che ci rimangono. “No Lander” siamo tutti noi, che dopo il naufragio dobbiamo ripartire…

Sono grato che tu riesca a trovare riferimenti molto attuali anche in opere di qualche anno fa. La cornice di “No Lander”, lavoro del 2015, è l’Odissea di Omero, su cui ho voluto innestare una riflessione. In “No Lander”, cinque danzatori agiscono come marinai dispersi: precipitati nel buio dopo un naufragio e risollevati con movimenti scultorei dall’oscurità per cercare, afferrare qualcosa. Quindi sì, è un’opera malinconica, per ciò che non c’è più e non è più, un lavoro sull’assenza, ma anche sul desiderio di appartenenza. Oggi forse siamo un po’ così anche noi.

Spettacoli Buscarini

Forse dovremmo ripartire da “Io vorrei che questo ballo non finisse mai”: è questo spirito gioioso, attivo, ma anche retrospettivo che bisognerebbe recuperare?

Ti ringrazio, sembra tu abbia visto il lavoro dal vivo. Quest’opera del 2018 ha infatti qualcosa di nostalgico, ma non si tratta di una malinconia angosciosa: al contrario c’è una sensazione positiva, che va coltivata e ricordata, alle sue basi.

Lo spazio scenico rievocato è quello di una balera, dove la frenesia della festa e del ballo è protagonista. Allo stesso tempo, l’elemento cinematografico, lo scorrere di immagini in bianco e nero di grandi film degli anni 50 e 60, rappresentano un tempo passato che si cerca però di riportare gioiosamente in vita con il movimento e la parola; come se il sogno potesse divenire realtà e non dovesse finire mai. È proprio così che credo dovremmo sforzarci di fare noi, non appena sarà possibile: ritrovare energia per costruire il futuro, partendo dalle lezioni del passato.

So che hai collaborato molto con il Teatro Municipale di Piacenza, avvicinandoti all’opera lirica. È un’esperienza che ha cambiato i tuoi orizzonti artistici?

Sì, è stata un’esperienza importante. In realtà il mio lavoro nell’opera lirica è iniziato molto prima, quando avevo 18 anni. Già da allora ho partecipato alle prime produzioni d’opera, sia a Piacenza sia con la Fondazione Arturo Toscanini. Ho partecipato a produzioni importanti in Italia e all’estero. Negli ultimi quattro anni ho invece cominciato a lavorare come assistente alla regia. Ho imparato molto dalla lirica, perché si tratta di un ambiente piuttosto complesso dal punto di vista delle maestranze e dei linguaggi che confluiscono in questa forma teatrale.

Ho acquisito tanto sul piano della leadership professionale e personale, riuscendo poi a tradurre queste capacità in disciplina e autocontrollo utili per la mia attività di coreografo.

Spettacoli Buscarini

E arriviamo alle “Goldberg Variations” dell’autunno 2020, il tuo più recente spettacolo da coreografo e danzatore su musiche di Bach. Che esperienza è stata? Tu hai sempre voluto avvicinarti a questo compositore.

La prima volta che ho avuto a che fare con Bach da vicino è stato in realtà con il mio lavoro “L’età dell’Horror” (2017) in cui ho usato quasi tutti i contrappunti dell’ “Arte della Fuga”.  Per le “Goldberg Variations” dell’ottobre 2020 (Borgo delle Colonne, Parma), mi è stata chiesta una collaborazione dal violinista Gian Maria Lodigiani, per un progetto che contesse corpo, “Goldberg”  suonate per trio d’archi, e scenografie virtuali del video maker Martino Chiti.

Tali scenografie sono state per me la vera novità, perché era la prima volta che mi confrontavo da vicino con questo tipo di tecnologia: video e proiezione reagiscono infatti sia alla musica sia al mio movimento trasfigurando il corpo e lo spazio. L’esperienza mi ha permesso quindi, ancora una volta di esplorare nuovi linguaggi; oltre che di mettermi alla prova con un’opera di Bach incantevole, ma non certo facile.

Cosa ti sentiresti di dire oggi al mondo della cultura, alla politica e ai giovani, che probabilmente pagheranno più degli altri l’onda lunga di questo periodo?

Conoscere le nostre radici, da dove veniamo. Studiare, formarsi, approfondire. Quello che è stato prima aiuta a capire il presente e ad elaborare il futuro. La mia posizione è perciò quanto di più lontano possa esserci dalla nostalgia commiserevole: ricordare sì, ciò che stiamo vivendo e abbiamo vissuto, ma per cambiare attivamente le cose, per evolverci. “La tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri” diceva Gustav Mahler.

Concludo chiedendoti se hai già qualche nuovo progetto avviato.

Uno a cui sto lavorando e tengo molto è programmato per aprile 2021: un’installazione allo Spazio Leonardo di Milano concepita durante la prima quarantena. Un labirinto che si propone di fornire un input creativo di movimento al pubblico partecipante in forma di site-specific per l’architettura dello spazio espositivo in cui verrà proposto. Un’opera prodotta insieme alla mia collaboratrice Francesca Lando, parte della serie di mostre curate da Paola Bonino e Marta Barbieri di UNA Galleria (Piacenza).

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