Il miracolo di Marchionne: il modello della fabbrica piatta

E’ trascorso poco più di un anno e mezzo dall’ultimo articolo che ho pubblicato su Sergio Marchionne: un grande manager che ha saputo rivoluzionare uno dei settori più rigidi ed elefanteschi, nel senso di macchinosa esorbitanza, dell’economia.

Ha iniziato proponendo un nuovo modello finanziario, per acquisire la Chrysler, ormai prossima al fallimento, per poi passare al piano industriale fino ad arrivare laddove la maggior parte dei manager fallisce: il cambiamento del modello organizzativo. E’ stato in grado di creare una nuova realtà organizzativa, sia nelle fabbriche italiane che in quelle americane, proponendo un modello unico, quello della “fabbrica piatta”. In genere associare l’aggettivo piatto ad un qualsiasi sostantivo, per lo meno nella lingua italiana, lo si fa in termini negativi, diminutivi, di depotenziamento di un meccanismo o di un fenomeno. Appiattimento: livellamento verso il basso, abbassamento, ad esempio del livello culturale, recitano i dizionari.

Ma non è questo il caso. Ci troviamo al Festival dell’Economia di Trento, nell’ormai lontano giugno del 2014. Sergio Marchionne interviene alla presentazione del libro “Made in Torino?”, di Navaretti e Ottaviano. Uno studente di economia gli chiede che cosa dovrebbero fare in concreto i manager italiani per aumentare la produttività, e se è giusto appiattire i processi decisionali nelle imprese. “Il vero problema dei manager è che più piramidi crei e peggio gestisci l’azienda”, risponde Marchionne. Poi continua: “Se io avessi tre vice sotto di me starei tutto il giorno a rompere loro le scatole informandomi su cosa stanno facendo. Più stretto è il controllo e peggio funziona l’azienda. È per questo che io ho 70 o 80 persone con le quali lavoro direttamente e così rompo loro le scatole in maniera più distribuita”.

 

Primo concetto: togliere i livelli dirigenziali intermedi. Secondo concetto: la distribuzione delle responsabilità. Parte da questi due concetti fondamentali il modello di azienda piatta su cui ha lavorato Marchionne. “L’azienda si muove ad alta velocità grazie a questo modello perché consente decisioni condivise e rapidità di esecuzione”, spiega il manager a una platea praticamente paralizzata dalle sue parole. “Ma soprattutto in questo modo – continua Marchionne – i manager hanno molta libertà e spazio d’azione. Certo si tratta di gente che io seleziono in modo molto preciso e che è responsabilizzata perché sa che io non gli sto sul collo. Poi se sgarrano conviviamo per poco”.

 

Terzo concetto: velocità nelle decisioni. Quarto concetto: la selezione, ovvero la persona giusta al posto giusto. C’è un quinto concetto che sarebbe opportuno aggiungere: la convivenza tra premio e penalità. Alla domanda, perché l’azienda orizzontale fa aumentare la produttività più di quella verticale, Marchionne inserisce un nuovo concetto chiave, quello che fa la differenza: “Noi abbiamo liberato le forze della massa operaia”. Ma cosa significa? Significa, ad esempio, che “nello stabilimento di Pomigliano – spiega Marchionne – i capi e gli ingegneri sono al centro della fabbrica, lavorano in uffici protetti solo da vetrate, sono completamente visibili dagli altri lavoratori e vestono come gli operai in linea”.

 

Sesto concetto: dirigenti e operai insieme. Settimo concetto: togliere i legami gerarchici e creare un sistema collaborativo.

L’azienda orizzontale – Sostituiamo il termine “piatto” con il più aziendalistico “orizzontale” ed il gioco è fatto. Usciamo così da ogni possibile fraintendimento linguistico. Impostare un modello organizzativo di tipo orizzontale, o a bassa gerarchia, non significa togliere o annullare i livelli gerarchici, ma limitarli ai livelli ed alle funzioni di governo, puntando ad un modello più snello, più veloce. Con una parola sola, più agile.

Marchionne osteggiava la separazione fisica dei manager più importanti dal resto dell’azienda. Odiava i simboli verticistici del potere, tipici del modello “Fordista”, che molte realtà imprenditoriali faticano a superare. Marchionne detestava le «torri d’avorio» dei palazzi. Per rendere chiaro il suo messaggio, Marchionne impose la chiusura di tutte le “palazzine uffici” nelle fabbriche e nei centri direzionali, ovunque ha potuto, compresa la sua. Ad Auburn Hills, l’enorme quartier generale della Chrysler, che per estensione è il secondo edificio più grande degli Stati Uniti dopo il Pentagono, chiuse l’accesso al suo ufficio collocato su una torretta al dodicesimo piano. Lui lavorava in un banalissimo ufficio al secondo piano, proprio di fronte ad un anonimo ingegnere.

Ma come è stato possibile un cambiamento simile in due imprese che sommate insieme contano circa 200.000 dipendenti? Il cambiamento è stato possibile perché Chrysler e FIAT erano sull’orlo del fallimento. Larry Vellequette, un’autorevole voce del giornalismo automobilistico americano, scrisse: “Il fallimento del 2009 ha costretto Chrysler a cambiare nel profondo la sua cultura aziendale, cosa che non è successa alla General Motors che pure ha portato i libri in tribunale ma ha continuato semplicemente a pensare di essere troppo grande per fallire”.

L’umiltà sconfigge l’arroganza – Il nuovo modello orizzontale proposto da Marchionne pone lavoratori-massa assieme a direttori-massa indistinguibili dai sottoposti. Il primo segnale che salta all’occhio è che in fabbrica non si nota più la differenza fra colletti bianchi e tute blu. Anche perché vestono allo stesso modo. Un complesso sistema di intrecci orizzontali, a partire dall’uso delle parole, che sembrano il vero collante di FCA. Collante che trova uno dei punti di riferimento culturali nel libro – che Marchionne citava spesso – “Il mondo è piatto”, del premio Pulitzer Thomas Friedman.

Già le parole. Marchionne parla agli operai americani “We are ordinary people”. Li ringrazia: “Non per quello che fate, ma per quello che siete”. Dice loro: “Abbiamo investito un miliardo di dollari nelle attrezzature ma quello che farà la differenza è come le userete”. Sottolinea: “Le mie non sono parole vuote ma una testimonianza di valori condivisi, forgiati dai nuovi posti di lavoro». E ancora: “Siete voi le vere star”. C’è un vero e proprio cambiamento di paradigma: l’emergere dell’assegnazione del processo di creazione del valore aggiunto, un tempo affidato esclusivamente alle aree dirigenziali e dei quadri, anche alle fasce operaie qualificate.

“Se stiamo parlando di rivoluzione culturale, è questa qui”.

Andrea Lodi