La finestra sul mondo della moschea. Cronaca di un’ordinaria giornata di Ramadan fotogallery
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In quel periodo venne realizzato, tra le altre cose, il piano soppalcato, che ospita oggi uno spazio polivalente e quattro aule per il catechismo musulmano, che attualmente si avvale della didattica a distanza per le dodici classi locali e per le ulteriori dieci sparse per tutta Italia. Questa scuola – l’Istituto di studi islamici – è intitolata ad Averroè, forse il più importante tra gli intellettuali musulmani del Medioevo: nato nel 1126 nella Spagna araba – ovvero a Cordoba, la città della favolosa Mezquita – fu astronomo, medico, matematico, ma è noto soprattutto per i suoi commentari ad Aristotele, che ebbero un ruolo decisivo per la riscoperta e il recupero dell’opera del filosofo greco in tutta Europa, in un’epoca in cui i classici erano custoditi solamente negli scriptoria di pochi monasteri.
La sua “Distruzione della distruzione dei filosofi”, in particolare, smontava le teorie di Avicenna, basandosi sull’idea di un’armonia e di un accordo tra religione e filosofia, entrambe alla ricerca della verità, ognuna con le sue modalità, inevitabilmente diverse. (Quella araba è una cultura millenaria, e ha giocato un ruolo importante nella “rinascita” del nostro continente durante l’Alto e il Basso Medioevo – si pensi solo ai numeri, introdotti in Europa dal pisano Leonardo Fibonacci nel XIII secolo; eppure da noi resta in parte misconosciuta).
Il sole è ormai basso. Accompagnati da Lejla e Arian, ci incamminiamo verso il Giardino dei Popoli, che è anche il luogo delle feste; esso, tra palme e ulivi nei vasi, ospita una fontana rivestita di maioliche coloratissime realizzate in Marocco. Qui, in condizioni normali, la comunità è solita consumare l’Iftar, ovvero il pasto serale che – dopo la recita della preghiera canonica del tramonto – interrompe il digiuno quotidiano. Un ragazzo attraversa la corte e ci offre dei datteri: lo vuole la tradizione. I nostri ospiti ci raccontano il meccanismo del ramadan, che ogni anno arriva con circa dieci giorni di anticipo su quello precedente; il motivo è la differenza tra il calendario islamico, che è basato sul moto della luna ed è dunque composto da 354 o 355 giorni (corrispondenti a 12 mesi lunari da 29 o 30 giorni), e l’anno solare, che come è noto ne conta 365. Lo scarto complessivo è appunto di dieci o anche undici giorni; ciò significa che occorrono circa 33 anni per fare il giro completo dell’anno, e dunque tornare da capo.
Resta il tempo per osservare una piccola costruzione oltre il giardino, adibita a uffici, il campo da calcetto per i ragazzi – su un muro di un capannone è appeso anche un canestro – e il giardinetto sul davanti con le palme, recentemente realizzati grazie all’intubamento del canale Riello. È l’ennesimo risultato importante, ottenuto con sforzi caparbi e sacrifici da una comunità che attualmente è stimata in circa 3.000 fedeli provenienti dai più svariati paesi: Lejla e Arian sono arrivati a contare almeno 29 nazionalità diverse, ma le più numerose sono quelle del Marocco, Egitto, Albania e Bosnia, e poi ancora Bangladesh e Pakistan. Sono le 20 e 13 minuti, e il sole è del tutto scomparso dietro l’orizzonte: è giunta l’ora della preghiera (şalāt), la quarta della giornata, ovvero una delle cinque obbligatorie (le altre, oggi martedì 20 aprile, sono alle 4:58, alle 13:20, alle 17:09 e alle 21:43, così ci ricorda un tabellone luminoso appeso alla parete di fondo).
(ph Gb Menzani-Gb Zanaboni)
Lejla e Arian ci invitano ad assistere al rito; domandiamo loro se è possibile scattare fotografie, e loro ci accordano il permesso. Entriamo dunque nella grande sala, dove i fedeli si dispongono – a debita distanza, e ad aiutarli ci sono dei segni con il nastro adesivo: chi non trova posto all’interno, si inginocchia in cortile – depositando i propri tappeti su quello più grande che occupa in pratica tutto il pavimento, intervallato solo da grandi pilastri a forma cilindrica; il tappeto ci ricorda una notte stellata (su un fondo blu scuro ci sono migliaia di piccole stelle stilizzate) ed è orientato verso la Mecca. Tutt’intorno le pareti sono nude e semplici, non ci sono né statue né quadri: l’arte islamica non consente infatti la raffigurazione della divinità e più in generale dei corpi umani, ed è per questo motivo che nel corso dei secoli ha affinato una maestria inarrivabile nella calligrafia e nelle decorazioni geometriche e astratte, si vedano ad esempio i mosaici, i tappeti, gli oggetti di uso comune.
La nostra attenzione è attratta da una pregevole balaustra di legno intarsiato, opera di artigiani albanesi, mentre al soffitto sono appesi i ventilatori. Sulla parete di fondo, in attesa del mihrab (la nicchia che indica ai fedeli la direzione), vi è il minbar di legno, ovvero il pulpito del predicatore. Usciamo a passi lenti, facendo attenzione a non fare rumore. Di nuovo nell’atrio, Lejla e Arian ci mostrano una vetrina con le varie edizioni del Corano – c’è in numerose lingue – e dei salvadanai per la raccolta fondi. Allo spaccio ci viene offerto un tè caldo, che accettiamo volentieri; compriamo i datteri (davvero ottimi) e le spezie: curcuma, cumino e ras hanout, una sorta di curry maghrebino.
È tempo di saluti e di ringraziamenti, tra poco scatta il coprifuoco. Rientriamo alla base con una bella suggestione: Piacenza stasera non è così piccola, e quella che abbiamo visto è come una vera e propria finestra aperta sul mondo.
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