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Il pericolo del “razzismo 2.0”: “Non scindere mai l’odio online da quello reale”

In vista del Giorno della Memoria, la redazione di Universi ha compiuto un approfondimento sul tema dell’odio online e delle fake news collegate al “razzismo 2.0“, quello che si diffonde grazie allo strumento del web e dei social. Le domande di Chiara, Alex, Roberta, Micaela e Hassan, sono state rivolte al professor Stefano Pasta docente di Metodologia delle attività formative e speciali dell’Università Cattolica che collabora con il Cremit, Centro di Ricerca sull’Educazione ai Media all’Innovazione e alla Tecnologia dell’ateneo.

Autore del libro “Razzismi 2.0 un’analisi socio-educativa dell’odio online”, Pasta descrive le “gradazioni” di odio che si diffonde facilmente online e l’importanza di intervenire non solo sul fronte educativo ma anche su quello tecnologico, orientando in maniera valoriale gli algoritmi che presiedono le ricerche e le associazioni sul web.

Nel suo libro “Razzismi 2.0” compie un’analisi socio-educativa dell’odio online. Potrebbe darci una definizione dell’odio che viaggia sul web e delle sue peculiarità?
La categoria odio è al tempo stesso ambigua e utile. La verità è che non è facile definirlo: le discipline degli “hate studies” portano a definizioni diverse. Da pedagogisti riteniamo che non si debbano considerare soltanto i casi più estremi, come spiega la “piramide dell’odio” che ne rappresenta le diverse gradazioni. Dentro a questo schema si possono valutare diverse intensità progressive fino all’incitamento e alla condizione che porta ad individuare un bersaglio. La Shoah e la persecuzione degli ebrei naturalmente sono uno dei bersagli più noti anche dell’odio organizzato sul web, ma anche in questo caso può esserci una scala di intensità, che va dall’indifferenza fino al male estremo, quello dei camini di Auschwitz. Un esempio citato dalla senatrice Liliana Segre può essere utile per comprendere: lei stessa ha più volte evocato le risatine delle sue coetanee nel ’38 nei suoi confronti di bambina ebrea, poco dopo l’introduzione delle leggi razziali – o più correttamente leggi razziste con cui il regime cacciava gli ebrei dalle scuole italiane. Ecco quella non è ancora una manifestazione d’odio estremo quanto una discriminazione che creava terreno fertile perché potesse crescere qualcosa di assai più grave. L’errore che non dobbiamo commettere è quello di scindere il concetto di odio tra quello online e quello offline: in realtà c’è un profondo collegamento tra le due dimensioni nonostante le specificità – onlife come dice Floridi – in questo consiste l’utilità della definizione di odio di cui dicevo all’inizio, perché spiega fenomeni distinti ma profondamente connessi.

Quali sono gli obiettivi più facili di questo tipo di odio?
La forma di “disinibizione tossica” che si propaga nel web fa cadere i tabù nell’accanimento contro alcune categorie, che sono bersagli “storici” dell’odio: in questo senso possono prosperare le forme di antisemitismo, l’antigitanismo contro rom e siniti, l’islamofobia, il sessismo e anche le manifestazioni contro i disabili. Sono presi di mira gruppi, o anche singoli, per la loro valenza simbolica o perché sono soggetti fragili. Pensiamo alla prima infermiera vaccinata, o all’esempio di Nadia Toffa, giovane donna che ha avuto il coraggio di raccontare la sua malattia. Sono diventati bersagli di vere e proprie vampate anche molto rapide d’odio, favorite da diversi fattori: l’analfabetismo emotivo, la caduta delle inibizioni e dell’empatia dovuta allo schermo del computer che si interpone tra i carnefici digitali e le vittime degli strali.

Chi sono i soggetti promotori? Singoli o più spesso gruppi organizzati?
Gli autori di queste vampate (“flame wars”) sono molto diversi. Nei miei studi mi sono imbattuto in ragazzi giovanissimi che invitavano online allo stupro di proprie coetanee, o inneggiavano al lancio di bottiglie molotov contro i centri di accoglienza per immigrati. E alla domanda ‘perché hai scritto una cosa del genere’ la risposta spesso è stata nel segno della deresponsabilizzazione: “è soltanto una battuta”, “da non prendere sul serio”. In realtà queste forme disimpegnate sono gravi e creano terreno fertile all’accettazione sociale dell’odio. Ad agire nelle campagne d’odio online sono anche i gruppi organizzati nei quali si saldano tendenze e finalità diverse, dal complottismo, all’ostilità generalizzata verso le istituzioni. Durante la pandemia abbiamo assistito spesso a queste mescolanze di intenti, ci sono ricerche sulla protesta contro i vaccini e contro il green pass che mostrano la presenza di diversi gruppi di promotori, alcuni più connotati politicamente, altri meno. Ma con la medesima finalità di scontro e di lotta.

La stagione del covid è stata anche la stagione delle bufale e dell’odio contro i vaccini e la scienza. Perché sono state messe in giro così tante idee folli sul web?
L’emergenza della pandemia ha diffuso nella società paura, tensione e insicurezza, è pertanto normale che la risposta sia stata segnata da un rafforzamento identitario e dall’esigenza di coesione nei confronti di un nemico comune. Questa reazione ha una valenza positiva se implica fare fronte contro il virus, valorizzando i legami e il sostegno reciproco. Ma può anche tradursi in un’occasione per scatenare la rabbia eleggendo a bersaglio la scienza, dando sfogo a teorie complottiste. Un meccanismo fondamentale che presiede queste manifestazioni è la disintermediazione che caratterizza le interazioni sul web: dove lo spazio pubblico consente a tutti il libero accesso. In questo contesto le competenze di un ragazzino di 12 anni che utilizza Tik Tok sono sullo stesso piano di quelle un docente universitario. Non c’è più autorevolezza che tenga, una situazione che ha anche un corrispettivo di più lungo corso nella società, con il processo di ritirata dei corpi intermedi e delle organizzazioni di mediazione sociale.

In vista della Giornata della Memoria, quali sono i punti di contatto e le differenze tra il razzismo 1.0 e quello 2.0?
Il razzismo 2.0 è quello che trova il suo ecosistema ideale nel web 2.0 caratterizzato dalla coautorialità di tutti i soggetti connessi, dall’affermazione dei social e degli strumenti di messaggistica istantanea come whatsapp. Un terreno ideale per l’affermarsi delle forme distorte di informazione, dove gruppi strutturati possono partecipare attivamente per diffondere messaggi falsi o fuorvianti. Ma così come il web 2.0 presenta questi rischi, porta con sé anche opportunità per combattere questa deriva. Le stesse comunità possono segnalare, denunciare, controbattere ai messaggi falsi. Soprattutto intervenire per diffondere messaggi corretti. In questo senso gli algoritmi dei motori di ricerca che permettono di reperire informazioni non sono mai neutri, rispondono a logiche ben precise che spesso sono legate a meccanismi di profitto.

Ebbene, è possibile intervenire su questi algoritmi per modificarli e orientarli in maniera da ottenere la comparsa di contenuti verificati contro altri dannosi. Ad esempio ricercando la parola ebreo si può fare in modo che non vengano visualizzati accostamenti perversi o offensivi: proprio in questa direzione va l’accordo di collaborazione annunciato pochi giorni fa dalla Coordinatrice nazionale per la lotta contro l’antisemitismo della Presidenza del Consiglio, la professoressa della Cattolica Milena Santerini, e Google Italia, con l’obiettivo di contrastare il fenomeno della disinformazione sul web legato all’antisemitismo. E sempre in questa direzione vanno iniziative come la stesura delle Linee guida contro l’antisemitismo a scuola (il professor Pasta fa parte del gruppon di lavoro che le ha redatte, ndr) del Ministero dell’Istruzione, illustrate qualche giorno fa anche all’Università Cattolica di Piacenza.

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