“Mangiare la terra per restare vivi” La storia di Luigi Dameli, deportato a Dachau

“Quando rientrò dalla Germania, quel giorno d’estate del ’45, conobbi per la prima volta mio padre. Me lo ricordo. Penso che abbia avuto fortuna a ritornare vivo da Dachau, anche se quello che ha passato negli undici mesi trascorsi in un campo nazista non ha mai voluto raccontarmelo direttamente. Insieme agli altri deportati fu impiegato in una fabbrica per la costruzione delle eliche degli aeroplani: ogni mattina venivano condotti sopra a una bilancia per essere pesati, chi non raggiungeva i 43 chili era destinato all’eliminazione. Vide prigionieri mangiare la terra per restare vivi”.

Luigi Dameli (nella foto il primo da sinistra), classe 1906, è stato un importante e apprezzato artigiano piacentino, maestro del ferro battuto, scomparso nel 1982. Non volle mai prendere la tessera del partito fascista per lavorare e quando subentrò nella bottega artigiana di Ferruccio Tansini – anche lui fabbro e primo sindaco socialista di Piacenza – lo aiutò a mantenere i contatti con la resistenza, facendosi da tramite di alcuni messaggi recapitati nella sua vecchia officina. Gli costò un primo arresto e, dopo alcuni mesi, un secondo. All’inizio del ’44 si ritrovò su un treno per il Brennero, destinazione Buchenwald e poi Dachau.

Gino Dameli deportato a Dachau

La tessera dell’associazione deportati

MAI LA TESSERA DEL FASCIO – A quasi 78 anni di distanza, Umberto Dameli ci racconta una storia che il padre ha preferito tenere quasi sempre per sé, di orrore e tragedia, ma anche di amicizia e solidarietà semplice, quella che fa restare umani quando tutto sembra perduto. “Mio padre Luigi imparò il mestiere del fabbro da giovanissimo – racconta – nella bottega di Collarossi di vicolo del Pavone, poi andò a lavorare anche in via Sopramuro, dal padre ucciso dai fascisti del Comandante partigiano Muratori. Negli anni del regime fu assunto alla Pertite di S. Antonio, allora c’era molta richiesta di manodopera e divenne capo carpentiere senza mai prendere la tessera del Fascio. Ai vertici dello stabilimento c’era un colonnello dell’Esercito che sposò una donna piacentina, al quale non interessava l’aspetto politico, apprezzava mio padre come buon operaio. Poi nel ’40 ci fu la grande esplosione e tutta la produzione del caricamento dei proiettili con le maestranze furono trasferite nella fabbrica omologa di Noceto, in provincia di Parma”.

Gino Dameli deportato a Dachau

La comunicazione del licenziamento

SUL TRENO PER IL BRENNERO – “Le cose cambiarono a Noceto – prosegue -, gli chiesero la tessera e alla fine lo licenziarono il 21 novembre del ’42, conservo ancora la lettera con le motivazioni. Fece un periodo all’officina Braghieri vicino alla stazione come capomeccanico e nel ’43 tornò alla sua prima passione, il ferro battuto. L’occasione si presentò quando l’ex sindaco Tansini decise di lasciare, anche per sfuggire al fascismo, la sua officina al civico 8 di via Trebbiola e mio padre subentrò nell’attività mettendosi in proprio. Ma quell’officina restò il luogo di recapito per i messaggi destinati a Tansini e lui si fece più volte da tramite. Fu scoperto una prima volta e fu incarcerato per 40 giorni. Al processo gli fu risparmiato il confino e venne semplicemente costretto ai domiciliari per un periodo limitato. Ma il suo aiuto alla rete clandestina non si fermò e pochi mesi dopo fu preso di nuovo. Questa volta non la passò liscia. Fu picchiato a dovere in via Borghetto e poi trasferito a Parma, dove passò tre giorni e tre notti d’inferno, tra urla e botte ai prigionieri. Percorrendo il corridoio del carcere le sue scarpe affondavano in pozze di sangue”.

“Da lì non lo vedemmo più – aggiunge – perché fu fatto salire su un treno verso il Brennero e la Germania”. Dameli fu deportato prima a Buchenwald e poi trasferito nel campo di concentramento vicino a Monaco di Baviera, quello di Dachau. Il primo allestito dal nazismo per sfruttare il lavoro coatto al servizio del Reich e del suo apparato militare. “Mio padre non raccontò mai in famiglia quello che passò in quegli undici mesi, accadeva con un amico o se incontrava qualcuno che aveva compiuto la stessa esperienza. Non cercò mai riconoscimenti, ricordo soltanto che dopo la guerra a casa ricevemmo un assegno di risarcimento direttamente dalla Germania, era della Banca nazionale tedesca”.

Gino Dameli deportato a Dachau

Al centro Luigi Dameli e Gaetano Lecce davanti all’ingresso di Dachau con la comitiva della Famiglia Piasinteina (1970)

L’AMICO DI PAVIA – Il conflitto mondiale stava volgendo al termine, era iniziata la parabola discendente del nazismo, per questo “bisognava sfoltire la manodopera non più necessaria”. “Li mettevano in fila e uno ogni tre veniva prelevato – racconta Umberto Dameli – e fatto sparire, a lui non toccò questa sorte. Seppi che una volta venne sorpreso nel cortile del campo mentre mangiava la zuppa destinata ai cani, per molto meno c’è chi venne fucilato sul momento”. Con l’avanzata delle forze alleate giunse il momento di smantellare i campi di lavoro, i prigionieri sopravvissuti vennero costretti con marce massacranti a trasferirsi da un posto all’altro: giornate intere di cammino senza soste, e chi non resisteva veniva liquidato sul posto, con un colpo alla nuca. “Anche questo fatto legato a mio padre lo venni a sapere dopo – spiega il figlio – perché un signore ogni anno arrivava da Pavia a casa nostra, ed era una festa quell’incontro. Era un uomo minuto che vendeva macchine da scrivere Olivetti. Si erano conosciuti a Dachau e quando arrivarono i giorni delle marce forzate, le affrontarono insieme. L’amico ben presto cominciò a barcollare, sfinito dalla fatica. Allora mio padre, che aveva una corporatura più robusta, lo trascinò per chilometri e chilometri. Impedì che si lasciasse andare stremato, portandolo con sé per giorni. Nonostante la guardia nazista li seguisse senza mai staccare gli occhi, in attesa che uno di loro, o entrambi, cadessero. Finalmente giunsero in un accampamento e furono lasciati liberi dagli aguzzini, in attesa dell’arrivo delle truppe americane”.

Gino Dameli deportato a Dachau

Il certificato di rientro in Italia da Bolzano

L’INCONTRO COL DOTTOR LECCE – Luigi Dameli rientrò a Bolzano il 13 giugno del 1945, lo certifica il documento di viaggio del Comitato Assistenza ai Rimpatriati del Cln dell’Alto Adige. Quando giunse a Piacenza riprese la sua vita di prima, rifiutando le proposte di impiego che lo Stato fece ai sopravvissuti alla deportazione. “Aveva già lavorato sotto lo Stato alla Pertite – rammenta Umberto Dameli -, ora voleva portare avanti la sua attività di fabbro e far rinascere la bottega”. E così andò. Qualche anno dopo un incontro inatteso segnò la seconda parte della sua vita. “Avvenne in centro a Piacenza, due signori distinti di cinquant’anni che s’incrociano per caso, si guardano e si riconoscono. Probabilmente esitano un po’ prima di farlo, ma poi si sciolgono in un abbraccio forte e commosso. Mio padre ritrovò più o meno così un amico conosciuto a Buchenwald, il dottor Gaetano Lecce”. Medico dei partigiani e poi stimato specialista della nostra sanità, il dottor Lecce fu deportato a Buchenwald e ad Auschwitz, scampato alla Shoah, per tanti anni fu il presidente dell’associazione provinciale ex internati e deportati politici. “Non avevano più saputo nulla l’uno dell’altro dopo la deportazione in campi diversi – aggiunge – e si incontrarono di nuovo un giorno per caso. La loro amicizia si rinsaldò e li accompagnò per tutta la vita”.

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