“Le donne del folk”: viaggio al femminile sulle note degli ultimi di ieri e di oggi

Quarantasei voci femminili per riannodare il filo della memoria, per cantare gli ultimi di ieri, non così diversi da quelli di oggi.
Monumentale dizionario biografico- musicale del folk mondiale, da consultare oltre che da leggere, “Le donne del folk. Cantare gli ultimi. Dalle battaglie di ieri a quelle di oggi” (Edizioni Interno4, 2021),ultimo libro della giornalista e scrittrice piacentina Chiara Ferrari è una lettura da non perdere per chiunque abbia a cuore il legame indissolubile tra storia e impegno sociale.

I ritratti delle artiste raccontate non sono solo quelli di protagoniste impegnate nel preziosissimo lavoro di ricerca e valorizzazione del patrimonio popolare e musicale del proprio territorio attraverso le generazioni. Una ricchezza identitaria altrimenti destinata all’oblio. Nelle loro vite il dramma umano si intreccia con la scure della storia, in un viaggio di resistenza collettiva intorno al mondo e incontro agli ultimi a ritmo di musica. Dagli Stati Uniti, all’America Latina, attraverso Africa, Medio Oriente, fino all’Europa e all’Italia, non importa che si tratti di grandi nomi, come Nina Simone, Joan Baez, o Miriam Makeba, oppure di personalità meno note come potrebbe essere Maria Farantouri. L’importante è che cantino, con l’empatia che solo le donne sanno provare, le sofferenze e le lotte di un popolo messo ai margini dalla Storia. Come dice infatti la musicista Teresa De Sio:”Il folk è il rock del popolo. Non smette mai di dire ciò che non muta e dà radici al mondo”.

Tracce del percorso compiuto in questo libro si trovano negli articoli da te scritti per ‘Patria Indipendente’, periodico dell’ANPI. A partire da qui, come nasce l’idea di scrivere “Le donne del folk”?

L’idea di scrivere il libro è nata dopo qualche anno dalla collaborazione giornalistica con Patria Indipendente, periodico online dell’ANPI. Inizialmente mi venne chiesto di esplorare con la scrittura di articoli il lavoro di artiste che avevano preso parte al folk revival in Italia tra gli anni Sessanta e Settanta. Dalle biografie di quelle più note, per cui era più semplice reperire testimonianze scritte tra libri e articoli, sono passata a ripercorrere le loro diverse incisioni, così da ricostruire sia la vita di queste artiste che la loro produzione musicale. Mi sono interessata poi a figure meno conosciute, come Teresa Viarengo, o poco annoverate nell’ambito del folk revival, come Concetta Barra. L’interesse verso l’approccio che le donne hanno avuto nella salvaguardia del canto popolare come parte delle loro radici, mi ha spinto a ricercare anche in altri Paesi figure che avessero compiuto lo stesso percorso: la mia indagine si è quindi spostata negli Stati Uniti e poi in America Latina, in Africa, in Medio Oriente, fino all’Europa. Un percorso supportato dal desiderio di ridare voce e restituire memoria a interpreti e cantautrici che tutta la vita si erano spese per le istanze degli ultimi, quelli che una voce non l’avevano mai avuta. Le vicende di molte di queste donne rischiavano infatti di sparire in mancanza di una documentazione puntuale del loro lavoro di ricerca e produzione musicale. ‘Le donne del folk’ nasce quindi inizialmente come proposta di raccolta delle biografie pubblicate sul periodico, ma il progetto assume poi una forma più ampia con l’aggiunta di biografie inedite e lo sguardo spinto fino al presente. In questo modo il libro prova ad essere una guida al femminile del folk mondiale.

Dizionario di biografie, guida nell’universo femminile del folk, il testo evidenzia accuratezza e varietà nell’uso de delle fonti. Come le hai reperite, a chi ti sei rivolta?

Per alcune artiste esistevano già ritratti molto accurati, ricostruzioni biografiche e parabole artistiche. Alcune di loro hanno lasciato testimonianza del proprio pensiero attraverso lunghe interviste edite in articoli, libri e riviste, o in documentari e materiali video. In altri casi, invece, è stato necessario colmare un vuoto: per quanto riguarda l’Italia, ho rintracciato una serie di interlocutori significativi che potessero definire con maggiori dettagli ritratti rimasti incompleti. Il Maestro Beppe Chierici ad esempio, attore, cantautore, traduttore di Georges Brassens, mi ha raccontato chi era Daisy Lumini, con la quale aveva collaborato per lungo tempo nell’attività di ricerca del patrimonio popolare dei canti della Toscana, realizzando poi anche opere originali.

Un caso ibrido di interviste e materiale d’archivio?

Per la parabola biografico-artistica di Caterina Bueno ho avuto diversi scambi con la dottoressa Pamela Giorgi, che cura presso Indire un archivio dedicato proprio all’artista toscana: un repertorio in cui sono conservate lettere, fotografie, testimonianze che la studiosa ha ripercorso, rivelando particolari inediti della vita dell’artista. Ho avuto anche la fortuna di poter intervistare la maggiore testimone del folk revival italiano tutt’ora in attività, Giovanna Marini, artefice di un repertorio originale ricchissimo nato dalla rielaborazione di quello popolare riscoperto nelle ricerche svolte principalmente nel sud Italia. E poi non posso non ricordare l’esperienza di “Cantacronache1958-1962: politica e protesta in musica”, documentario a cui avevo partecipato nel 2011 per l’Università di Bologna intervistando personalmente Margot, una delle artiste raccontate nel libro. .Questo lavoro, la mia passione per le artiste donne impegnate nel restituire al canto una funzione sociale sono nate anche da lì. Materiale reperito in rete e ricerca di immagini provenienti da archivi diversi completano il lavoro.

Il lavoro è incentrato sulle diverse operazioni di ‘folk revival’ compiute da musiciste, ricercatrici e studiose in varie parti del mondo. Di cosa si tratta ?

Dare voce alle tante fragilità emerse nei vari Paesi è stato elemento centrale nel lavoro di queste artiste dedite al folk revival. Il recupero della canzone popolare in cui il folk revival degli anni ’50-’70 consiste nasceva infatti da un’identica missione: restituire dignità alle classi sociali più emarginate per elevarle e renderle consapevoli di una propria specifica cultura. In questo modo il folk con le sue artiste, si fa strumento di cambiamento, favorendo una rivoluzione sociale per il diritto all’uguaglianza. Ritrovare in tante parti del mondo, tra Stati Uniti, America Latina, Africa, Medio Oriente ed Europa, un numero così importante di studiose, ricercatrici, cantautrici, interpreti legate al comune intento di salvaguardare il patrimonio orale della loro terra, mi ha indotto a delineare un percorso unitario, seppur attento alle specificità di ogni contesto. Il risultato? Un lavoro di ricerca e trasmissione del patrimonio popolare straordinario. Coraggioso, con molte di queste artiste protagoniste dei momenti più drammatici del loro Paese, stravolto da rivolte e dittature. In queste circostanze la rivalutazione e l’originale elaborazione del canto popolare si rivelano quindi espressione di libertà, grido di rabbia, resistenza collettiva e rivoluzione dal basso da un lato; autenticità e ritorno alle radici di un popolo dall’altro. Consapevolezza di un’ eredità che, con le parole dell’artista Teresa De Sio: “non smette mai di dire quello che non muta e dà radici al mondo”.

Giovanna Marini, una delle tue protagoniste, dice: “La donna non mette diaframmi tra sé e la vita, tra sé e gli altri” Anche per questo hai scelto di parlare di donne? La copertina del libro racconta la tua scelta?

La copertina del libro è una delle fotografie più significative degli anni Sessanta, scattata da Rowland Scherman nei giorni delle lotte per i diritti civili contro la segregazione razziale. Due artisti bianchi cantano durante la marcia su Washington, manifestazione indetta nel 1963 per il lavoro e la libertà, per smuovere le coscienze dell’America sconquassata da continui atti di violenza razziale. Sono Bob Dylan, cantautore portavoce del cambiamento necessario e Joan Baez, la “Madonna scalza” a cui il Time aveva già dedicato una copertina, artista-icona per le sue canzoni e le sue lotte. Artisti bianchi cantano per i diritti dei neri, perché quella battaglia è a nome di tutti, per la libertà contro ogni discriminazione. Sarà Martin Luther King a scolpire quelle pagine di Storia con il suo famoso discorso “I have a dream”. Rielaborando lo scatto fotografico originale, la copertina del libro porta in primo piano l’artista donna lasciando sullo sfondo la metà maschile della coppia, da sempre in primo piano nei vari ambiti della società. Si chiariscono in questo modo taglio e scopo del libro: far emergere la voce delle donne, capaci, spesso ultime tra gli ultimi, di farsi con la musica, voce collettiva per la lotta di affermazione dei diritti. Le parole di Giovanna Marini sono allora illuminanti per spiegare l’atteggiamento delle donne, la loro spiccata attitudine a porsi in empatia e in ascolto delle sofferenze altrui, che conoscono e condividono. Una sofferenza partecipata senza filtri per darle maggiore risonanza possibile, come solo le donne sanno fare. Ecco perché ho voluto parlare di loro.

Molto di più che guida musicale e biografica, il testo è un viaggio incontro agli ultimi di tutto il modo. Qualche esempio di come la Storia si intreccia con le storie personali delle protagoniste?

Quella di Rosa Balistreri è una storia che non si poteva non raccontare per il suo percorso di vero e proprio riscatto attraverso la musica. Grazie alla musica la Balestrieri ha infatti trasformato una vita segnata dalla violenza sociale e domestica, dalla miseria e dall’ingiustizia nella forza di una voce con cui ha potuto cantare le disgrazie della sua terra: quella Sicilia di Mafia e Parrini, dei soprusi a cui erano costretti i poveri jurnatari come lei, lavoratori senza diritti e perennemente sotto ricatto, soprattutto se donne. Per avere una possibilità di salvezza, dalla Sicilia Rosa se ne dovrà andare, trovando nella Firenze di Caterina Bueno la strada per emanciparsi e ritornando più tardi alla sua terra come artista riconosciuta. Solo un esempio tra tanti, in Italia e nel mondo, di come il canto ha cambiato la Storia e le storie. Anche la vicenda di Giovanna Daffini appare emblematica. Con la grande dignità di un umile lavoratrice, ha portato sul palcoscenico sé stessa: la sua vita di mondina, donna e artista che ha dovuto abbattere radicati stereotipi. Disprezzata da un marito diplomato violinista che la faceva sentire inadeguata, non era una professionista, ma è stato anche grazie a lei se i canti delle mondine sono giunti a noi, insieme ad una storia di emancipazione femminile che ha per collante il sentimento della sorellanza. Lo ricordano anche le mondine del Coro di Novi, che ancora oggi cantano e rinnovano quel repertorio.

Fuori dall’Italia l’impresa di Violeta Parra, madre del folk mondiale, è gigantesca. Profetica e visionaria, i suoi tanti progetti, tra cui un’Università del Folklore, furono sempre ostacolati, il suo impegno dalla parte della povera gente perseguitato, impedito, ritenuto politicamente pericoloso. Ancora oggi in pochi conoscono a fondo la portata del suo lavoro, ma artiste come Elena Ledda, Joan Baez, Gabriella Ferri l’hanno celebrata e la ricordano cantando la sua Gracias a la vida. E se Mercedes Sosa si è fatta anima del popolo argentino incarnando la voce dei desaparecidos e subendo in prima persona censura ed esilio, Maria Farantouri è stata voce della Resistenza greca. Costretta a fuggire dalle brutalità della dittatura militare dei Colonnelli che già aveva incarcerato Mikis Theodorakis, Maria porterà parole e musiche di Theodorakis in giro per il mondo, raccontando le vessazioni che gli intellettuali schierati contro quel governo fascista stavano subendo. In Sudafrica sarà Miriam Makeba a cantare l’impatto devastante dell’apartheid sugli abitanti. In America si farà portavoce e testimone delle atrocità compiute, vittima anche lei di censura e costretta a fare i conti con il divieto di ritornare in patria. Una lunga lista di artiste su cui la Storia si è abbattuta, condizionando le loro vite e carriere. Anche per questo simboli universali di coraggio, determinazione, voglia di riscatto.

Quale ruolo hanno avuto gli intellettuali nel movimento del folk revival?

Al processo di recupero dei canti della tradizione popolare è sottesso il pensiero di un percorso di emancipazione delle classi subalterne, alle prese con fame, discriminazioni, guerre, soprusi, promosso e guidato dagli intellettuali. In Italia le figure di spicco che si muovono in questa direzione sono diverse, a partire da Antonio Gramsci, che nel 1950 pubblica le “Osservazioni sul Folklore” in cui attribuisce alle classi subalterne concezioni del mondo autonome, antagoniste rispetto a quelle della cultura dominante. Pier Paolo Pasolini nel ’55 compone poi il “Canzoniere italiano”, antologia dei canti e della poesia dialettale, dove sostiene la tutela delle tradizioni come unica arma contro i nuovi fascismi. Italo Calvino si occuperà invece del recupero delle fiabe italiane. Non sono che tre esempi di un ben più ampio e variegato fermento intellettuale sostenuto anche dal Pci, che, nelle parole del segretario Palmiro Togliatti, si pone l’ obiettivo di educare le masse anche attraverso lo strumento della canzone, perché prendano coscienza della situazione socio-politico del momento e si attivino nella partecipazione alla vita civile. Le diverse riflessioni trovano un fondamentale punto d’incontro nelle attività di ricerca del Nuovo Canzoniere Italiano, attivo a Milano dal 1962 al 1980: movimento di ricercatori, studiosi, musicisti, interpreti, critici centrale per riscoperta e divulgazione del canto sociale, politico, di protesta, di lavoro e di Resistenza in Italia. Ancora prima, in America la canzone popolare era diventata argomento di studio, analisi storica e sociale nelle università, a partire da Harvard e dagli studi di Charles Seeger, di John Lomax e poi dal figlio Alan.

Così, in Italia come in Inghilterra e in America, il recupero del patrimonio orale si caratterizza come un processo intellettuale che ha lo scopo di dare risalto a una storia diversa, quella delle classi subalterne: la storia dal basso che difficilmente viene raccontata e che certamente non trova posto nei manuali. Docenti universitari, politici, scrittori, giornalisti, etnomusicologi, critici creano le basi perché questa storia venga divulgata. Ma sono le donne (alcune già in una posizione socio-economica privilegiata, ma molte estremamente umili) quelle che davvero si impegnano sul campo, andando con i loro registratori per campagne, osterie, mercati, in luoghi desolati alla riscoperta della memoria della tradizione. E così la riportano alla luce. Loro incidono questo patrimonio su dischi, lo archiviano e lo cantano dai palcoscenici, rinnovandolo dei drammi umani e delle istanze politico- sociali del presente.

L’ultimo capitolo è dedicato alle nuove generazioni. Credi che il folk possa ancora parlare ai giovani d’oggi? Cosa hai scoperto sull’importanza di lingue e dialetti occupandoti di folk?

È la stessa domanda che ho fatto alle interpreti da me individuate come voci nuove, una piccola rappresentanza di una schiera certamente più numerosa. Tutte sono concordi nel pensare al folk come esperienza viva, in trasformazione, una musica che cambia insieme alle persone. Come dice la cantautrice sarda Claudia Crabuzza: “La canzone popolare, quella che parla da cuore a cuore, continuerà a sostenere le generazioni, dando voce a chi non ce l’ha. Che sia folk tradizionale o elettronico, contaminato, che lo chiamiamo world music o altro”. In queste parole credo ci sia riassunta l’idea di folk come musica che viene da lontano, memoria di un popolo e delle sue radici, che avrà sempre qualcosa da dire perché fortemente legata a istanze universali ed eterne: diritto al lavoro, lotta alle discriminazioni, libertà, bisogno di democrazia e pace tra i popoli. Le giovani artiste riescono ad interpretare canti della tradizione o a crearne di nuovi, portando all’attenzione tematiche sulle quali la società di oggi ancora deve intervenire, dalla violenza sulle donne, al razzismo, fino all’immigrazione e allo sfruttamento sul lavoro. Molte lo fanno attraverso il dialetto, lingua delle origini, di cui ancora una volta ci ricorda l’importanza Crabuzza: “Le lingue locali sono lingue universali, hanno la forza delle radici, sono potenti e credo che dovremmo fare molto di più per non perderle”. Non a caso, Elsa Martin ritrova nell’uso del dialetto friulano il forte attaccamento alla terra, la possibilità di connettersi con il mondo magico evocato da termini antichi, intraducibili, dove a produrre senso è il suono stesso, senza che si passi per l’intelletto. Il dialetto si fa quindi lingua poetica nelle armonie folk di tante artiste, patrimonio da salvaguardare contro l’omologazione linguistica: dalle variopinte sfumature del friulano di Elsa Martin, al gallo-italico di Eleonora Bordonaro, con i suoi canti in arbëreshë; passando per il catalano algherese di Claudia Crabuzza, il veneziano antico di Rachele Colombo e il dialetto umbro di Sara Marini. Fino a Ginevra di Marco che canta il folk di tutto il mondo.

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