“Quando si dice fame” Ovvero quando incontrammo per la prima volta il dramma dei profughi

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Si torna a parlare di profughi e di accoglienza anche nella nostra città, in questi giorni sconvolti dalla guerra in Ucraina. Il racconto di Loredana Mosti ci riporta ad un’altra vicenda lontana ormai più di 30 anni, alla prima grande ondata di persone in cerca di aiuto e di ospitalità nel nostro paese. 

Sto rientrando a casa dopo un impegnativo pomeriggio di udienze generali, a scuola, in cui ho ascoltato come un buon parroco le confessioni dei genitori sui comportamenti domestici dei loro figli, ma spesso anche gli affari privati della famiglia e ho condiviso, non so con quale successo, linee di didattica e criteri di valutazione, quando all’improvviso un sussulto: stasera a cena resteranno i nonni, che ho impegnato tutto il pomeriggio come baby sitter, e non ho pane a sufficienza. Sono le 19.30: per fortuna la panetteria è a un isolato da casa; fermo la macchina e mi precipito in negozio sul filo della chiusura, nella speranza di trovare anche due soli pezzetti di pane. Mi piace prenderlo fresco giornalmente, il pane, ma stamattina ho fatto male i conti. Dal forno retrostante il negozio ogni mattina si leva una fragranza tale che è impossibile non entrare: pane di diverso formato, brioches calde, spianate di pizza e focaccia da vendere al taglio alimentano una mia perversione: da quando mi è stata diagnosticata una grave allergia a tutti (dico tutti!) i cereali e la mia dieta è drasticamente mutata, ho sviluppato un acuto senso dell’olfatto, che mi permette di sopperire al gusto. Fiutando…mi sazio. Così faccio la mia piccola spesa di pane quotidiano, esco come se avessi fatto una colazione pantagruelica e sono a posto per tutta la mattina. Metto il pane fresco e profumato in macchina (lo porterò a casa nella pausa pranzo) e così prolungo il piacere del suo sapore per tutto il tratto di strada fino al lavoro.

Sono cliente della panetteria da moltissimi anni e con i gestori, Gianni e Ada, si è instaurata una confidenza e una familiarità tale che, pur continuando a darci del lei, ci scambiamo i giochi dei nostri figli, i libri e persino i vestiti “scappati”. “Ada, sono rimasta senza pane, ne avete ancora?” “Panini no, un filone pugliese” “Me lo dia pure tutto, lo affetto io a casa, grazie”. Prendo veloce il sacchetto, lo infilo nella mia capace borsa, quella in cui metto di solito anche i libri o i compiti in classe da correggere, pago e mi appresto ad uscire, quando Gianni, che sta riordinando il banco, mi ferma. “La vuol portare ai ragazzi?” E mi incarta un trancio, meglio mezzo metro quadrato, di focaccia con la cipolla. “Per oggi ho finito; chiudo”. Ringrazio ed esco. So che a nessuno dei miei piace la cipolla, ma ho considerato una scortesia rifiutare. Poggio il cartoccio sul tappetino sotto il sedile del passeggero, per evitare che la carta oleosa sporchi la tappezzeria. Domani vedrò di disfarmene, ora ho troppa fretta di salire a casa. Saranno già tutti in rivolta per il mio ritardo.

L’indomani è il mio giorno libero ( si fa per dire “libero”!) e quindi posso mettere mano ai lavori domestici più estemporanei, come portare in lavanderia i piumoni e i maglioni invernali. E’ una delle prime giornate davvero tiepide di una primavera in ritardo. E c’è un bel sole. Il pane lo prenderò più tardi. Carico tutto nel portabagagli, ma entrando in macchina un improvviso acuto odore di cipolla mi riporta alla mente che vi ho lasciato la focaccia, ormai elastica. Abbasso i finestrini e mi metto in moto per creare un po’ di ventilazione, finchè non arrivo al primo bidone a fianco dei giardinetti dietro casa. Accosto e sto per scendere con il mio mezzo metro quadrato di focaccia rinsecchita, quando all’improvviso, proprio dai giardinetti escono due ragazzotti, poco più che adolescenti vestiti con giacche fuori moda da adulti così poco conformi alle loro facce imberbi.

Di sicuro non sono studenti che hanno bigiato la scuola, sembra piuttosto che abbiano dormito la notte su una panchina, tanto sono scarmigliati e…sgualciti. Istintivamente rientro in macchina e tento velocemente di rimetterla in moto, combattuta tra paura e disagio, perché intanto i due si fanno avanti a mani tese. “Non ho spicci da darvi”, mi giustifico impacciata. “Fame, fame”, insistono. “Nemmeno il pane ho ancora comprato, oggi”, mi giustifico ancora, sempre più confusa. ”Ho solo questa focaccia ormai rancida” e mostro loro il cartoccio… Non ho mai visto strappare a morsi con tanta voracità e rabbia della focaccia stantia, e con le cipolle, alle 9 di mattina. Una mattina di aprile 1991. Il 7 marzo erano appena sbarcate a Brindisi alcune imbarcazioni di migranti albanesi, dalle 20mila alle 30mila persone, una stima mai precisata. Erano i primi del mondo povero che l’Italia imparava a conoscere.

Loredana Mosti

albanesi a Bari

(foto da Facebook)

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