Amelio arriva al cuore, ma nel “caso Braibanti” la voce dell’Italia resta debole

Se c’è un cosa che Gianni Amelio è riuscito a fare con mirabile lucidità nel suo ‘Il signore delle formiche’, ultimo film del grande regista calabrese presentato alla mostra del cinema a Venezia e in anteprima anche a Piacenza, è stata portare in scena la figura del poeta, drammaturgo, intellettuale e professore piacentino Aldo Braibanti (un magistrale Luigi Lo Cascio) in tutta la sua complessità, restituendoci, attraverso la ricostruzione della sua drammatica vicenda, la vergogna di un’ingiustizia dimenticata troppo in fretta insieme alla potente delicatezza dell’amore.

La vicenda che Amelio ha voluto raccontare nel film è appunto quella tragicamente reale, ma rimaneggiata nella narrazione, del ‘caso Braibanti’: nell’Italia del ’68, a finire sul banco degli imputati è stato proprio il professore piacentino, accusato di plagio e condannato a nove anni di reclusione per aver “ridotto in totale stato di soggezione”, fisica e psicologica, il 23enne Giovanni Sanfratello (nella finzione cinematografica Ettore Tagliaferri, interpretato da un esordiente e sorprendente Leonardo Maltese); suo studente e da due anni compagno di vita. Ipocrita pretesto per attaccare l’allora inaccettabile relazione omosessuale tra l’artista e il suo allievo, tanto che il giovane studente venne rinchiuso dai genitori in clinica psichiatrica per “guarire dal demonio che aveva in testa” a suon di devastanti elettroshock. Il ‘caso Braibanti’ è però molto più della ricostruzione di un processo infamante: tra bucolica campagna emiliana e palazzo di giustizia romano, angusta vita di provincia e sogni di libertà nella Capitale, sullo schermo prende infatti corpo un vasto racconto a più voci, bellissima e disperata storia d’amore, ma anche tentativo d’affresco di un epoca e di un Paese che tuttavia l’autore non riesce effettivamente a scandagliare tra le pieghe delle sue contraddizioni più laceranti.

Prima il focus sul laboratorio intellettuale di Braibanti e dei suoi allievi nella campagna piacentina, dove avviene l’incontro e cresce il legame con il giovane Ettore. Poi l’intera vicenda processuale. Amelio sembra sostanzialmente dividere il suo racconto (di cui tra l’altro ha contributo a scrivere la sceneggiatura con Edoardo Petti e Federico Fava) in due parti, non dimenticando però di concedersi flashback che uniscono passato e presente e cuciono insieme brandelli d’amore e violenza. L’apparente divisione è quindi efficace espediente drammaturgico per dare solido rigore a tutti gli aspetti della vicenda, in cui, accanto all’imputato, trovano posto famigliari, accusatori, amici e, su tutti, il giovane amato. E, se è vero che in questa storia a più voci l’aula di tribunale si fa inquietante specchio dell’Italia retriva di quegli anni, attraverso la mentalità reazionaria del pubblico ministero (Valerio Binasco), l’atteggiamento fintamente comprensivo del presidente della corte (Alberto Cracco), o il ghigno sornione di un avvocato, fuori dal palazzo di giustizia qualcosa manca.

Non si avverte, non abbastanza, la connivenza sonnacchiosa di un’opinione pubblica per lo più indifferente, così come, sul fronte del sostegno a Braibanti, la reazione del mondo culturale non trova alcuno spazio. Intellettuali del calibro di Moravia, Pasolini, Morante, Carmelo Bene, Dacia Maraini e i fratelli Bellocchio, convinti difensori del poeta, non sono neppure citati: i fermenti di cambiamento che scuotono l’Italia senza ancora riuscire davvero ad attecchire, sembrano quindi sbrigativamente risolti dall’autore mostrando frammenti di proteste studentesche e staccando sul volto odierno di Emma Bonino: esponente di quel movimento radicale che più di tutti si è battuto per i diritti civili. Lo stesso personaggio di Ennio, giornalista dell’Unità incaricato dal giornale di seguire la vicenda Braibanti, non ha lo spessore che meriterebbe. Elio Germano è di indubbia bravura nel dare volto a quello schivo cronista anni ’60, cappello in testa e mazzetta di giornali sotto braccio. Ma la fatica del giornalista nella ricostruzione di una verità scomoda, oscurata da sospetti e censure, non si respira. La penna di chi si impegna a difendere gli ultimi, simbolo di una stampa non subordinata alla morale prevalente, si annida tra i diverbi con il direttore del giornale, si intuisce nell’esortazione accorata a difendersi rivolta al poeta; Senza però affondare le sue lame.

A spiccare e convincere di più in questo racconto polifonico è allora proprio il suo protagonista, Aldo, grazie ad un Lo Cascio straordinariamente fedele al Braibanti in tutte le sue diverse sfaccettature. Non molto diverso dalle formiche osservate e studiate ogni giorno nella teca della sua “torre”, che vivono nella loro piccola immensità e di cui nessuno quasi si accorge se non per schiacciarle alla prima occasione, il Braibanti di Gianni Amelio non è certo un santino: ne scopriamo gli eccessi caratteriali mentre insegna ai suoi ragazzi, ma sentiamo anche la grande  capacità del poeta di infondere il fascino della cultura. O la profondità di un gesto d’affetto appena accennato. Diverse sfumature di un’unica anima, la stessa che in aula di giustizia preferisce il silenzio dignitoso alle parole vane. E anche dopo, in carcere, non vuole essere considerato “nè mostro, né martire”. Lo sguardo puro di Leonardo Maltese, nei panni dell’amato Ettore, arriva anche lui dritto al pubblico: appassionato e fragile nei confronti del mondo che lo circonda, il suo amore per Aldo è umano prima che sessuale, capace di riempire di delicatezza la disperazione del dramma.

Opera intima, con  il merito di rievocare una ferita ancora aperta e colpevolmente rimossa nell’Italia di oggi (dove molto resta da fare in termini di diritti), “Il signore delle formiche” arriva al cuore dello spettatore, ma resta pur sempre parziale: una lente di ingrandimento sul contesto politico- culturale dell’epoca avrebbe certo reso l’ultimo lavoro di Amelio un grande film.

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