Tassi in aumento, Borse in rosso e il fantasma della recessione. Cosa ci attende il futuro?

Le Banche Centrali stanno alzando i tassi per arginare la corsa dell’inflazione. I rendimenti sono in salita ma le Borse sono in rosso. Che cosa sta succedendo sui mercati finanziari? Queste politiche economiche perché vengono attuate se si rischiano forti ripercussioni a danno degli investitori? Quali sono i possibili scenari futuri? Abbiamo affrontato il tema con il professor Maurizio Baussola, docente di Politica Economica all’Università Cattolica sede di Piacenza.

Prima, facciamo un piccolo passo indietro. Per diverso tempo le Banche Centrali hanno promosso tassi negativi, per incentivare la messa in circolazione del denaro e i prestiti, al fine di stimolare la crescita economica e disincentivando la deflazione. Durante la crisi finanziaria che, a partire dal 2007, ha colpito gli Usa e, con un effetto domino, gran parte delle economie mondiali, le Banche Centrali di tutto il mondo sono state chiamate a definire complesse misure allo scopo di aiutare le economie ad uscire dalla recessione e che consentissero un recupero e un rafforzamento del settore finanziario per il futuro. Per anni le Banche Centrali hanno effettuato operazioni espansive di mercato aperto, con lo scopo di aumentare l’offerta di moneta: acquistando titoli, per portare ad un aumento del prezzo dei titoli, e ad una conseguente riduzione del tasso di interesse.

La pandemia da Covid-19 e lo scoppio della guerra in Ucraina hanno imposto alle Banche Centrali l’adozione di misure di rialzo dei tassi di interesse. Le Banche Centrali hanno quindi dato il via a operazioni restrittive, diminuendo l’offerta di moneta vendendo titoli, così facendo si è ridotto il prezzo dei titoli e si è arrivati ad un aumento del tasso d’interesse. Ma, solitamente, si tratta di manovre sempre annunciate con anticipo prima di essere attuate, con lo scopo di preparare i mercati. Nella sola giornata di mercoledì 21 settembre, la Banca Centrale della Svezia ha alzato a sorpresa i tassi di 100 punti base. Ha risuonato il campanello d’allarme sui mercati finanziari per il timore di mosse maggiormente aggressive da parte di altre Banche Centrali. Poco dopo l’orario di chiusura delle Borse, è arrivata la stoccata da parte della Federal Reserve (la Fed, la Banca Centrale americana), che ha alzato per la quinta volta da inizio anno i tassi d’interesse, questa volta di +0,75%.

Come spiegato da Jerome Powell, chairman della Fed, si tratta una misura necessaria e dolorosa per combattere un’inflazione che rimane elevata. Questo rialzo si tradurrà inevitabilmente con il sacrificare la crescita, andando quasi ad azzerare le attese sul passo del Pil (Prodotto interno lordo) di quest’anno. La Fed intende riportare l’inflazione a quota +2% contro i dati che evidenziano un +8,3% sui prezzi al consumo nell’ultimo anno ad agosto. La mossa della Federal Reserve ha alzato l’asticella sul costo del denaro, inoltre il rialzo dei tassi di sembra essere una situazione destinata a perdurare fino a inizio 2023. Ma il mercato sembra non credere che la Fed possa alzare nuovamente i tassi. La curva dei rendimenti dei titoli di Stato, ovvero la differenza tra i tassi a due anni e quelli decennali, sta subendo un’inversione di tendenza. Solitamente, chi acquista un titolo a dieci anni dovrebbe avere un rendimento atteso più elevato di colui che compra un titolo biennale. Ma stiamo assistendo all’esatto contrario. E quando questo avviene, cioè quando la curva dei tassi si inverte, molto spesso si profetizza l’arrivo di una fase di recessione.

«Sulla questione del rialzo dei tassi di interesse – spiega il professor Maurizio Baussola – bisogna fare un’analisi tranquilla e pacata. Il quadro nel quale ci stiamo trovando è caratterizzato dall’incertezza sia economica che politica, e ciò ha dei riflessi sull’attività economica reale e sui mercati finanziari. A questo si deve aggiungere un conflitto bellico (tra Russia e Ucraina) che impatta drammaticamente sulla vita delle persone e si ripercuote sui prezzi delle materie prime». «Le Banche Centrali avevano già, ovviamente, pensato a rialzare i tassi di interesse nel futuro: era naturale pensare di uscire da politiche monetarie non convenzionali, questo a prescindere dalla guerra e dalla pandemia. Una uscita dalle politiche monetarie non convenzionali, cioè cessare di acquire in grande scala di titoli di Stato, per ridurre i tassi d’interesse a medio e lungo termine, doveva interrompersi. Questo passo sarebbe stato seguito da una fase di transizione, non repentina, ma ovviamente da un progressivo aumento dei tassi di interesse dettato naturalmente. Non si poteva pensare di mantenere tassi zero negativi ancora per altro tempo, per certi versi, infatti, questo comporta effetti distorsivi macroeconomici».

«Ora stiamo assistendo ad un’inaspettata velocità di innalzamento dei tassi, a seguito di fatti esogeni molto rilevanti, come la carenza globale di semiconduttori accentuata dalla ripresa economica post Covid-19. In aggiunta, la scarsa reperibilità delle materie prime e, come amplificatore, la guerra. Tutto ciò ha reso problematica l’uscita dalle politiche economiche non convenzionali». «Ci si trova davanti al problema di alzare quanto più rapidamente i tassi d’interesse per tenere sotto controllo l’inflazione. Come? Attraverso un controllo della “domanda aggregata” (la domanda aggregata è la somma della spesa per i consumi delle famiglie, degli investimenti delle imprese, della spesa pubblica dello Stato e della pubblica amministrazione e dalla differenza tra le esportazioni e le importazioni di beni e servizi)».

«L’intento è quindi quello di ridurre la spinta inflattiva, che non deriva però solo da domanda ma anche da costi. Chiaramente, l’aumento dei tassi d’interesse va ad impattare sulle decisioni di spesa sia di famiglie che di imprese. Proprio con lo scopo di ridurre la domanda. Questo inevitabilmente comporta una contrazione del mercato del lavoro (aumento della disoccupazione. L’inflazione nei decenni passati abbiamo imparato a combatterla, possiamo definirci attrezzati soprattutto rispetto alla spinta inflattiva che viene dai salari: pensiamo alla questione della contrattazione salariale e di dinamica della produttività. Il nocciolo della questione è nella difficoltà di gestire le problematiche e le crisi geopolitiche. Questa sorta di inflazione importata è faticosamente controllabile e può certamente impattare negativamente sulle attività economiche delle imprese. I mercati finanziari riflettono, in parte, questa questione. Anche se sussistono dinamiche che sono indipendenti dalla attività economica reale».

«Cosa dobbiamo attenderci? Ulteriori rialzi dei tassi d’interesse, ragionevolmente fino all’inizio del 2023. Però nessuno è in grado di formulare delle ipotesi fondate sugli scenari futuri. Ciò che potrà accadere nelle prossime settimane non è prevedibile. È altamente probabile che si verificherà una recessione ma, oggi, non abbiamo gli elementi per stabilire quanto essa potrà durare e quanto peserà. L’impatto sull’Europa verosimilmente ci sarà, e avverrà in ritardo rispetto agli Usa. Questo porterà a dei problemi ulteriori sul fronte dei prezzi delle materie prime nelle dinamiche dei processi produttivi». «Chi ha investito in titoli di Stato europei credo possa stare tranquillo, ritengo si sia imparato anche dalla lezione del 2011/2012, e ci sono tutti gli strumenti per tenere sotto controllo anche possibili shock. Sul versante azionario ci saranno delle fluttuazioni e, al di là di possibili speculazioni, ma ragionando in un’ottica di medio-lungo periodo, dobbiamo solo aspettare che la bufera passi: da una recessione si esce. Il nodo della questione è invece rappresentato dall’evoluzione geopolitica internazionale, drammaticamente molto seria».

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