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Ecco l’edizione Super Deluxe di “Revolver”: la musica pop-rock non sarà mai più come prima

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È o non è il disco più bello e importante dei FabFour? Alla fine ci interessa poco saperlo. “Revolver” (pubblicato il 5 agosto del 1966) fa parte di uno straordinario e irripetibile ciclo di cinque album – da ‘Rubber soul’ del 1965 ad ”Abbey Road’ del 1969, completato da “Sgt. Pepper” del 1967 e dal “White Album” del 1968 – che ha cambiato definitivamente la musica pop-rock e fortemente influenzato la cultura di massa (c’è chi scrive che i Beatles hanno di fatto inventato la cultura giovanile).

Questa fantastica edizione uscita oggi (28 ottobre) – un Super DeLuxe curato e remixato da Giles Martin, figlio del grande George, produttore dei quattro – non fa altro che confermarlo: suonava innovativo e rivoluzionario allora, suona ancora moderno e irresistibile oggi. Rispetto al precedente “Rubber soul”, che pure conteneva alcuni dei più bei pezzi di Lennon di sempre come “Girl”, “Norvegian wood” e “In my life”, “Revolver” compie infatti un decisivo salto di qualità nelle melodie e negli arrangiamenti, sempre più vari, sofisticati e complessi: dall’ottetto di archi di “Eleanor Rigby” alla psichedelia orientaleggiante di “Love you to”, dal rock sincopato di “Taxman” all’elettronica quasi aliena di “Tomorrow never knows”. Del resto, abbandonato il palco live dopo le isterie della Beatlemania, i ragazzi avevano sempre più tempo per stare in studio di registrazione e per sperimentare, per provare e riprovare. Dice lo stesso Giles Martin: «Ascoltare Revolver è come ascoltare sette band differenti in un solo album… nessuna canzone suona come la precedente. I Beatles si evolvevano sempre».

La scaletta ha qualcosa di sovrumano. Si parte forte con la celebre “Taxman” di Harrison, un atto di accusa contro la politica fiscale del governo Wilson. Per la prima volta George è l’autore del brano d’apertura di un album, segno che aveva già raggiunto – a livello compositivo – lo status dei due leader; lo stesso chitarrista è l’autore di “Love you to” e di “I want to tell you”. Paul McCartney è come sempre in gran forma: è lui a scrivere il maggior numero di pezzi. Sfodera infatti la melodia immortale di “Eleanor Rigby”, aiutato da John nel bridge (“Ah, look at all the lonely peolple!”) e le ballate immortali “Here, there and everywhere” e “For no one”; e ancora, la più solare “Good Day sunshine” e il suol travolgente di “Got to get you into my life” (oltre che il gioco un po’ bislacco di “Yellow submarine”). Infine c’è John, più inquieto e carismatico che mai; firma il rock duro di “She sai she said” (senza Paul, a causa di uno dei consueti litigi), “And your bird can sing” (che in seguito lo stesso Lennon definirà uno scarto, ma avercene di scarti così…) e “Doctor Robert”, la sublime “I’m only sleeping” (nel Super Deluxe anche in versione folk) e soprattutto la già citata “Tomorrow never knows”.

Si fa largo uso del termine “seminale”, spesso a sproposito. Nel caso di questa canzone, tuttavia, si può certamente osare: si tratta di qualcosa semplicemente mai sentito prima. Curiosamente, esso fu il primo brano a essere concepito e registrato, e questo fa spostare la sua genesi ai primi mesi dell’anno, forse a gennaio 1966. Il suo titolo originario era The void, poi abbandonato per il provvisorio Mark 1, e infine per quello definitivo, mutuato da uno dei consueti strafalcioni di Ringo Starr (“malapropismi”, li definiva John), che così aveva risposto a un’innocua domanda di un giornalista della BBC (1964): letteralmente “Il domani non si sa mai”… pare fare il verso a Lorenzo il Magnifico! La canzone, basata sul solo accordo di do maggiore, fu ispirata a Lennon dal Libro tibetano dei morti e da un testo di Timothy Leary, oltre che dalle sue prime esperienze con acidi (LSD, in particolare); Leary sosteneva che le droghe potevano permettere il raggiungimento della morte dell’ego e di uno stato superiore di conoscenza, paragonabile all’attesa di una nuova reincarnazione. “Tomorrow never knows” è un autentico viaggio lisergico, asimmetrico e persino disturbante (“Turn off your mind, relax, float downstream”/”nel dubbio, spegni la mente, rilassati e fatti trascinare dalla corrente”), distante anni dalle melodie che avevano reso i FabFour famosi in tutto il mondo.

Merito, anche e forse soprattutto, di un paziente lavoro di produzione; un lavoro assai costoso, dal momento che si arrivò a spendere oltre 250.000 dollari (cifra iperbolica, per l’epoca). John chiese al produttore George Martin e al tecnico di studio Geoff Emerick che la sua voce suonasse “come quella del Dalai Lama o di cento monaci tibetani salmodianti sulla vetta di una lontanissima montagna”; essa fu dunque trattata con l’effetto Leslie e raddoppiata nella prima parte grazie all’ADT (double-tracking automatico), e tutti ne rimasero soddisfatti. Furono poi aggiunti – con il metodo dei tape-loops, che consentiva di registrare più tracce sovrapposte sullo stesso nastro – un mellotron suonato sul registro del flauto, una scala ascendente di sitar e l’urlo di un gabbiano (che in realtà era Paul che rideva…). Emerick si inventò anche un nuovo suono per la batteria di Ringo, nascondendo un maglione di lana all’interno del tamburo. Si pensò addirittura di appendere Lennon per i piedi al soffitto dello studio! Sempre Emerick ebbe a dire: “Dal giorno in cui uscì, Revolver cambiò per tutti il modo in cui si facevano i dischi”.

Racconta Giovanni Ansaldo su Internazionale: «A metà degli anni novanta, durante i loro dj set, i Chemical Brothers mettevano sempre un brano house intitolato Lobotomie. “Durava dieci minuti e alla fine del pezzo la gente era esausta. A quel punto mettevamo Tomorrow never knows e succedeva qualcosa d’incredibile. Venivano a chiederci cos’era quella musica, volevano sapere se era un remix o una nuova uscita. Era così intensa e selvaggia”, ha raccontato il duo elettronico di Manchester alla rivista Mojo nel 2006».

PS: Nella versione Super Deluxe – disponibile anche in vinile – troviamo anche il mono mix originale, 28 registrazioni alternative da sessioni precedenti tra cui per esempio la prima di “Tomorrow Never Knows”, tre home demo, un libretto di cento pagine con la prefazione di McCartney, foto e appunti inediti, oltre a un EP di quattro tracce con nuovi mix stereo e gli originali mono mix rimasterizzati di “Paperback Writer” e “Rain”, purtroppo esclusi dall’album in base a una regola che i quattro si erano dati: i singoli non dovevano mai far parte degli album, loro avrebbero regalato ai loro fan e al mondo interno sempre musica nuova.

Giovanni Battista Menzani

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