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Il corso di italiano come “terapia di gruppo” per stranieri, in un libro l’esperienza di Mondo Aperto

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L’immigrazione ha innescato uno sfaccettato dibattito sulla portata delle trasformazioni sociali e delle loro conseguenze sugli assetti del territorio. Con l’intenzione di portare una riflessione più attenta su alcuni termini di questo dibattito si propone un libro edito da Kanaga nel quale ventitrè autori, italiani e stranieri, esperti di problematiche migratorie, esaminano diversi concetti ricorrenti quando si parla di immigrati, a cavallo tra le storie personali e le riflessioni culturali. L’elemento di sintesi sembra essere l’intercultura anche se a tutt’oggi non risultano del tutto chiariti gli elementi fondanti di questa accezione e le sue implicazioni pratiche. Nel corso dei vari contributi vengono esaminati gli aspetti relazionali tra le diversità, ma ci si interroga anche sulle metodologie delle pratiche interculturali e sul cambiamento continuo che le stesse producono, fino ad arrivare a sempre nuovi percorsi di conoscenza.

Formare un unico paesaggio in cui leggere la vicenda umana da sempre segnata dal movimento, rileva Marco Aime nella presentazione; da qui l’esperienza del viaggio, fatto di paure e speranze, di nostalgia e voglia di un futuro diverso. Bisogna lavorare in una “terra di mezzo”, tra sapere tecnico e sapere esistenziale, che propone un significato a realtà molteplici, i paesaggi culturali, per farle interagire. Il sistema di istruzione purtroppo è fondato sulla divulgazione di una cultura bianca, occidentale ed eurocentrica, ma i corsi di italiano per stranieri devono superare gli spaesamenti e diventare una palestra di cittadinanza. Si tratta di persone che vengono da un “altrove” (Jabbar) geografico, culturale, politico, linguistico, da una condizione di debolezza socio-economica anche in ragione del venir meno di una rete di relazioni sociali e non poter contare su qualche forma di rappresentanza; in una parola il modello è quello “dell’adattamento passivo” che fa dello straniero un soggetto da welfare e tutt’al più proponibile per un lavoro che nessun autoctono vuole fare più, molto distante da una concezione di parità, in termini di “intercultura marginale”.

A presidiare la terra di mezzo sono preposti i “mediatori linguistico-culturali”, che negli ultimi dieci anni hanno assunto una configurazione professionale codificata da provvedimenti che ne hanno evidenziato anche il profilo sul quale diverse università propongono percorsi formativi. Ma nella scuola essi sono presenti fin dal 1990 ed oggi i tempi sarebbero maturi per farne una figura di sistema, oltre che per la lingua anche per il contributo che possono portare alla conoscenze del sistema scolastico di provenienza e la cura dei rapporti tra scuola e famiglia. Nei bambini piccoli non esistono pregiudizi, mentre crescendo i ragazzi assorbono quanto viene riportato a casa, per le strade, alla TV; è fondamentale correggere affermazioni e atteggiamenti di rivalsa e di rifiuto verso gli immigrati che possono generarsi attraverso varie influenze proprio nell’adolescenza. Anche i giovani stranieri dicono di investire molto sulla scuola e nelle opportunità che da questa possono derivare; la sempre più frequente e diffusa vicinanza fra generazioni di origine diversa porterà nel tempo a smussare distanze e resistenze. Tra i libri di testo non ve ne sono che spiegano che le persone in fuga da violenze e persecuzioni, che poi fanno domanda di asilo politico, non sono clandestini e che hanno diritto all’accoglienza.

Un contributo importante viene dalla piacentina Rita Parenti, presidente dell’associazione Mondo Aperto che ormai da diversi decenni opera sul territorio in difesa dei diritti dei migranti. La base è il corso di italiano specialmente per le donne e mamme, che diventa un modo per sottrarle alla solitudine. L’apprendimento linguistico è l’occasione per condividere la situazione di ognuno/a; il giro di comunicazioni con il quale si apriva ogni lezione alternava richieste ed esperienze quotidiane. Le storie di vita di chi aveva attraversato il deserto per giungere in Italia, hanno sortito il desiderio di protezione vicendevole, facilitato dalla comune aspettativa di migliorare la propria vita. L’italiano era diventata quasi una terapia di gruppo per superare il senso di spaesamento che pervadeva soprattutto coloro che erano arrivati di recente, che veniva lenito dall’abbraccio corale dei presenti e dal sentirsi giorno dopo giorno parte di una comunità in cammino verso la soluzione dei problemi.

Con il passare delle lezioni le funzioni della lingua italiana diventavano pratica di comunicazione, la consapevolezza che l’accoglienza arricchisce tutti la conoscenza, la frequentazione e l’interazione tra donne straniere e autoctone ha permesso di tradurre concretamente la convinzione che i processi di inclusione/integrazione siano possibili solo se partecipati da un numero via via crescente degli abitanti di una città. Il corso ha rappresentato non solo un mezzo per l’inclusione sociale, ma nell’emergenza pandemica anche una condizione di contrasto alla solitudine. Attraverso un lavoro sinergico sono stati promossi e sostenuti molti percorsi di cambiamento, da parte di chi ha riattraversato la propria vita attraverso la scrittura. Si è resa più forte e coesa una comunità nel lavorare insieme nella diversità. Molte delle partecipanti hanno fruito anche di momenti orientativi per la ricerca di un lavoro e di supporto alla genitorialità, come poter aiutare i figli a proseguire nel percorso scolastico.

E’ la lingua che uguali affermava don Milani e quindi per chi viene da un altro Paese l’insegnamento dell’italiano è una questione di uguaglianza e di democrazia (Barberi), ma la lingua madre non è un elemento secondario dell’identità personale e collettiva, ma è radicata nella mente di una persona ed è uno specchio per la cultura che l’ha generata, che scambiata pone le basi per un’intercultura interlinguistica che aiuta anche gli alunni italiani e pone il nostro sistema scolastico in un’ottica internazionale, in un concetto moderno di cittadinanza. Noi italiani siamo meno aperti alla conoscenza di altre lingue, ma più pronti a segnalare le mancanze nella conoscenza della propria. Avere dimestichezza con il concetto di identità plurale e cangiante, concetto tanto intrigante quanto destabilizzante aiuta ad avvicinarsi alle situazioni delle persone senza alzare troppe barriere, a non ragionare per categorie fisse e rigide; provare ad incontrarsi a metà strada è già un buon compromesso comunicativo (Milani). Viviamo nella cultura della terra di mezzo, la pratica interculturale va intesa come politica del cambiamento, capacità di interagire dentro alla multiculturalità.

Gian Carlo Sacchi

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