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“Calo della natalità e invecchiamento della popolazione richiedono più lavoratori stranieri”

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Con un ampio reportage il Corriere della Sera ha recentemente esaminato la situazione demografica del nostro Paese: calo della natalità e invecchiamento della popolazione richiedono un aumento significativo dell’apporto dei lavoratori stranieri. Servono subito politiche adeguate per l’accoglienza e l’integrazione. L’aggiornamento dei dati sul movimento della popolazione italiana indicato dall’Istat ci consente di azzardare previsioni dell’anno appena trascorso: senza il movimento migratorio perderemo 400 mila abitanti; in neppure quattro anni ne abbiamo persi 950 mila, 200-250 mila all’anno. Alla fine del secolo arriveremo con una popolazione ultra vecchia di 25-28 milioni di abitanti.

L’Onu in una recente pubblicazione certifica che per i prossimi decenni la sola leva sulla quale potranno contare i paesi ad alto livello di reddito sarà quella dell’immigrazione. Ciò vale massimamente per l’Italia, il paese con la più bassa natalità dell’Ue e uno dei paesi al mondo con il più basso numero medio di figli per donna.
Ovviamente sono importanti politiche tese ad aumentare natalità e fecondità, anzi stiamo aspettando ciò che il governo metterà in atto al riguardo, ma realisticamente si potrà ricavare dal movimento migratorio ben più di quanto ci si potrà aspettare da quello naturale della popolazione. Aumentare le nascite si sta rivelando un’impresa molto difficile, nel 2022 esse diminuiscono ancora come ormai fanno da una dozzina d’anni, scendendo sotto la soglia di 400 mila nascite all’anno e non è realistico aspettarsi la contrazione del numero dei morti. Così il saldo naturale rischia di avere un numero di morti doppio del numero dei nati, mentre è il saldo migratorio che deve assumere un livello annuo tale da tenerci sulla linea di galleggiamento; da esso dipende infatti il destino prossimo e a più lunga scadenza del Paese. In pratica l’Italia potrà sperare in un dimagrimento demografico consistente, ma non esiziale, solo se il saldo migratorio sarà positivo nella misura di 200-250 mila unità all’anno e in virtù della minore età media degli immigrati si eviterà che la popolazione sia completamente decrepita. Diversamente se quel saldo dovesse posizionarsi sotto le 100mila unità annue non solo perderemmo 10 milioni di abitanti entro la fine del secolo, ma dovremmo fare i conti con una proporzione di donne in età feconda di 15-50 anni, ovvero con la potenzialità delle nascite in essa contenuta talmente esigua da precludere ogni vitalità demografica.

Ci accontenteremo di un saldo attivo del movimento migratorio entro le 100 mila unità o non proveremo a spingerci fino alle 250 mila unità all’anno? Tra queste due cifre si esplicita la differenza tra lo schiantarci e l’atterrare al suolo con il paracadute. La scelta che sulla carta sembra la più immediata in realtà e ben più problematica. Programmare , distribuire per quanto è possibile su tutto il territorio nazionale, integrare economicamente e culturalmente, il flusso dei migranti richiede consapevolezza e politiche di grande sensibilità umana, più difficile se si tratta di 250 mila stranieri in più ogni anno, ma è una scelta obbligata per evitare il declino irreversibile della popolazione italiana.

La logica della programmazione dei flussi in entrata dei migranti dovrà accompagnarsi anche ad una logica redistributiva se vogliamo provare a scongiurare lo svuotamento del mezzogiorno. Tale realtà territoriale nel quadriennio 2019-2022 ha perso oltre il 2,4% della sua popolazione contro meno dell’1% perso al nord. Al sud si nasce agli stessi ritmi se non perfino inferiori del nord, ma i movimenti migratori anche interni tra regioni e non solo quelli provenienti dall’estero approdano con ben altra frequenza al nord mentre si fermano assai poco al Sud e sulle Isole.

L’Italia ha una fortuna rispetto agli altri paesi della stessa Ue, è un’economia manifatturiera assai diffusa che predispone ad un’analoga diffusione dei migranti sul territorio; nel nostro paese ci sono 11,6 stranieri residenti ogni 100 abitanti nei 107 capoluoghi di provincia, ma anche 7,5 nel resto di tutti gli altri comuni italiani; l’economia manifatturiera è fortissima al centro-nord e lo è assai meno nel mezzogiorno, così che la popolazione straniera si attesta qui al 4,4% degli abitanti contro l’11% presente nel centro-nord. Una differenza che si amplia nel tempo piuttosto che ridursi e che minaccia di discriminare i destini delle due ripartizioni territoriali, con il mezzogiorno che davvero si schianta al suolo mentre il centro-nord aziona il paracadute del movimento migratorio e se la cava.

Ma può il nostro paese reggere una divaricazione a tal punto esiziale da diventare al tempo stesso geopolitica e antropologica? È un interrogativo che non può essere consegnato al domani, quando sarebbe troppo tardi: è una questione urgente per l’oggi.

_Gian Carlo Sacchi

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