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L’italiano che non si insegna agli immigrati: ma l’integrazione passa dalla lingua

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L’elemento base per l’integrazione dei cittadini stranieri è la conoscenza della lingua del paese ospitante; essa porta in dote numerosi dispositivi formativi: la comunicazione, il potenziamento delle relazioni, la conoscenza dell’organizzazione sociale, per l’ingresso nel mondo del lavoro. E’ una pratica molto diffusa in tutti i Paesi che accolgono immigrati, ed in certi casi inizia già dal paese di provenienza; in ambito europeo sono previsti livelli di competenza necessari per poter svolgere determinate attività lavorative, evidenziate anche attraverso apposite certificazioni rilasciate da altrettante istituzioni che la legge prevede.

La difficoltà di imparare la lingua del posto ha procurato tante accuse ai nostri emigrati portandoli a chiudersi nelle Little Italy, diventati spesso luoghi di disagio e di criminalità. La stessa cosa sta capitando a tanti stranieri che vengono da noi, che non riescono ad interagire con le comunità locali e tendono a rimanere nei propri gruppi di appartenenza, più facile origine di incomprensioni e di conflitti, e questo è ciò che accade soprattutto alle donne a seguito di ricongiungimenti familiari che finiscono per vivere separate dalla società e rinunciare così ad essere cittadini del nuovo paese. L’obiettivo dell’integrazione infatti è quello di una società  interculturale, che si adopera per favorire lo scambio e la collaborazione e dove l’interlinguismo deve impegnarsi per l’apprendimento della lingua locale e valorizzare quella di provenienza. Il plurilinguismo infatti è utile a tutti, a stranieri e italiani, ed è per questo che un’educazione plurilingue deve essere capace di far colloquiare i parlanti.

Sarebbe preferibile un’organizzazione distesa degli arrivi per poter meglio predisporre efficienti strutture di accoglienza che prevedano i tempi necessari per l’apprendimento linguistico ed altre attività formative, ma anche in situazioni di difficoltà il nostro paese aveva costruito un pacchetto di opportunità per accogliere  dignitosamente gli immigrati di cui la formazione diventava il trait d’union per uscire dalla clandestinità ed iniziare un percorso di inserimento, anche se l’Italia non dovesse essere il paese di definitiva destinazione. Sarà per il carico economico che il fenomeno fa pesare sul nostro bilancio o perché il tenere gli immigrati sulla corda fa recuperare consenso politico, che certi emendamenti al provvedimento in discussione sull’immigrazione mirano alla riduzione dei servizi nei centri di raccolta degli immigrati, fino all’eliminazione dei corsi di lingua. Numerosi studi documentano che tali corsi, ai quali si aggiungono quelli di formazione professionale, possono portare a significativi aumenti nella prima occupazione con riflessi positivi sull’economia oltre che sulla convivenza e la pace sociale.

Al nostro governo interessa lanciare un messaggio muscolare e securitario che dimostra lo scarso interesse per il loro inserimento, basta assicurare un parcheggio per limitare i danni in attesa di rimpatriarli o smistarli altrove. Se con una mano si vuol gestire il fenomeno ad excludendum, con l’altra chiediamo aiuto per la mano d’opera che scarseggia, per i flussi migratori con i quali non siamo in grado di soddisfare la domanda di forza lavoro. I corridoi umanitari, come modalità di immigrazione legale, vengono sbandierati ma non praticati e solo alcune regioni, in via sperimentale, stanno offrendo ai minori stranieri non accompagnati occasioni di formazione-lavoro, senza peraltro avere la garanzia che tale investimento non venga intralciato dalle pratiche sul rilascio della cittadinanza.

Il dramma demografico ed i conti in rosso del sistema pensionistico ci fanno guardare agli immigrati come unica possibilità, in tempi rapidi, di farsi carico della nostra capacità produttiva, visto che le politiche per la famiglia e il sostegno alla natalità sono ancora di là da venire. E intanto cosa facciamo con questi tagli miopi e autolesionisti ai già risibili finanziamenti per la lingua e i corsi di formazione professionale? Si tenga conto anche del fatto che l’Italia ha sempre avuto gli immigrati meno istruiti d’Europa: i tassi di alfabetizzazione degli adulti stranieri sono al di sotto del 50% ancora in 20 paesi dai quali provengono i nuovi arrivati, ma anche perché qui da noi non c’è mai stata una politica nazionale per insegnare l’italiano agli immigrati; si tratta di interventi di supporto ad una domanda alla quale lo straniero deve rispondere da solo. Non puoi neanche chiedere asilo se non sai come chiederlo.

Nei capitolati d’appalto per i servizi d’accoglienza l’insegnamento della lingua ai richiedenti asilo c’è: 4 ore a settimana da spartire fino a 50 posti, 72 ore dai 600 ai 900 posti; sulla carta, perché poi il caos nella gestione degli insegnanti spesso è una notevole complicazione e le strutture che sono lontane o disastrate fanno il resto. Una scelta controproducente quella che impedisce anche ai più svegli e volenterosi, che a volte fanno la fortuna di altri paesi, di tirar fuori quello che hanno dentro e di più li umilia stare in un limbo degradato a bighellonare per sopravvivere, come tanti nostri avi incapaci di capire e di rispondere in inglese, tipo i feroci “mental tests for immigrants”. Con la seconda generazione si potrà riconsiderare l’integrazione in un’ottica di internazionalizzazione, oltre il nazionalismo populista, che recupera in modo sistematico l’apprendimento plurilinguistico.

Gian Carlo Sacchi

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