When we were “mammoni” per non fare il militare. Storia dell’obiezione di coscienza-2

Seconda puntata della piccola storia dell’obiezione di coscienza alla leva, dopo la prima sui pionieri del servizio civile, in vista dell’evento organizzato dalla Caritas il primo giugno per celebrare i 50 anni della legge sull’introduzione del servizio alternativo al militare. Mauro Ferri racconta in prima persona la sua esperienza di obiettore negli anni ’90, quando il servizio era stato equiparato nella durata al militare e aveva perso molti dei suoi connotati più ideologici. Ma per tanti giovani è stata la scoperta di una nuova gerarchia di valori che ha resistito anche nella vita successiva. 

Agli “Ospizi” ho imparato un altro canone di bellezza. Non legato all’estetica, ma alle relazioni, alla sostanza di gesti essenziali: offrire il braccio saldo di un ventenne a una persona emiparetica, spingere una carrozzina senza sentirsi un benefattore, prestare attenzione a un problema fino a quel momento reputato insignificante, pulire e lavare chi non è grado di farlo da solo. Gli “Ospizi” sono gli Ospizi Civili – così si chiamavano allora – e lì abbiamo trascorso “l’anno più bello della nostra vita”, quello dell’obiezione di coscienza dal servizio militare. Ce lo siamo detti io e il mio amico ed ex collega di servizio Edo ancora di recente, ora che sono ne sono passati 27 da quel 1996. Non abbiamo cambiato idea: quei 12 mesi li portiamo dentro con la giusta dose di nostalgia, insieme ai ricordi che si stemperano nei contorni, ma che restano vividi nell’impronta che hanno lasciato. Anche Edo la pensa così.

La celebrazione dei 50 anni dalla legge che ha istituito l’obiezione di coscienza e l’evento del primo di giugno organizzato dalla Caritas Diocesana per chiamare a raccolta i circa 500 ex obiettori sarà l’occasione per riflettere sulla pace – tema di drammatica attualità – e sulla profondità di un’esperienza che ha cambiato l’esistenza a molte persone.

Ospizi Civili

La sede oggi degli Ospizi Civili

Da ex obiettore di coscienza intanto mi autodenuncio: quasi 30 anni fa feci una scelta da “mammone”. Quando optai per il servizio civile era già superata la sua fase pionieristica, non durava più l’eternità di 20 mesi (otto in più della naja) e gli obiettori non erano più una sparuta minoranza di giovani disposti a mettere in stand by la propria vita, per impegnarsi in un lungo percorso sociale con motivazioni profonde, spesso di natura religiosa. A vent’anni non credevo in Dio e nemmeno nelle divise, non avevo mai indossato una giacca (tranne alla prima comunione forse…), non mi piacevano le armi (“trasforma il tuo fucile in un gesto più civile” dei Litfiba mi spaccava le orecchie), soprattutto non sopportavo l’idea di trascorrere un anno intero irreggimentato in un sistema autoritario, sballottato chissà dove, a difendere non si sa cosa.

Obiettare significava soprattutto avere buone probabilità di restare vicino a casa (anche se non c’era alcuna certezza di assegnazione) e la possibilità di combinare qualcosa di utile per la comunità. Comunque la presi sul serio, decisi di non fare più il rinvio dagli studi e mi rivolsi alla Caritas per chiedere di iniziare il loro percorso di formazione prima del servizio. Ci furono un paio di colloqui preliminari e fui accettato, e in seguito diversi incontri sulla scelta della non violenza e sulla necessità di tradurre in gesti e azioni il pensiero di pace. Dalla teoria si passò alla pratica e fui dirottato sulla tossicodipendenza in una comunità a cosiddetta “bassa soglia”. L’incontro con una realtà che conoscevo solo in superficie, una sorta di centro di prima accoglienza per capire se i tossici fossero pronti per un percorso più lungo di recupero. Fu un tirocinio molto importante, del tutto volontario, prima del servizio vero e proprio. Mi resi conto che provare ad aggiustare vite che si sono rotte, come un congegno che non gira più, poteva essere un lavoro.

La cartolina di precetto azzurra arrivò all’inizio dell’estate e ricordo che il postino urlò: “Ospizi civili, vai ad assistere gli anziani!”. E la Caritas? E il tirocinio tra le tossicodipendenze storiche e le nuove sostanze? A farsi benedire. Perché funzionava così, alla fine qualche burocrate del Ministero ti assegnava d’arbitrio la sede del servizio da compiere. In realtà agli “Ospizi” (li avrei chiamati così d’ora in poi) non c’erano gli anziani, mi ritrovai invece in una dimensione parallela rispetto a quella in cui avevo vissuto finora. In un grande centro diurno e residenziale “socio-riabilitativo” per persone disabili. Di ogni età e in situazioni quanto mai diverse, talvolta senza più una famiglia. All’interno incontrai uno dei primi esperimenti di autonomia, il “G.a.s.” acronimo di Gruppo Appartamento Sperimentale. Per noi obiettori (eravamo in dieci) c’era un piccolo sussidio mensile – perchè il nostro non era “volontariato” – per un impiego di 36 ore settimanali su turni spalmati dalla mattina alla sera, anche con le notti (una alla settimana) da fare insieme agli ospiti del gruppo appartamento.

Non fu semplice. Gli obiettori di coscienza naturalmente affiancavano gli operatori del centro, ma l’impatto con quel mondo parallelo mi arrivò addosso tutto in una volta. Inserviente e cameriere, autista di pullmino, addetto alle pulizie, aiutante per l’igiene personale, amico e confidente sentimentale, accompagnatore di ogni genere di uscita, aiuto infermiere, aiuto assistente di base, aiuto educatore, commensale del pranzo e della cena, sentinella notturna, animatore improvvisato, arbitro di liti domestiche, assistente sportivo, assistente turistico nelle colonie estive, e ancora conversatore versatile e ascoltatore del vento. Per 12 mesi feci tutto questo ma non è certo un elenco di mansioni che può esaurire il senso di quell’esperienza.

Col servizio civile scoprii che esiste anche un altro modo di “fare politica”, perché obiettare ha significato calarsi completamente nella sfera dell’altro, spesso invisibile al mondo, rallentare al suo ritmo, guardare le cose dal suo punto di vista. E la riflessione sulla scelta di ripudiare le armi che c’entrava con tutto questo? Era diventato lampante: la pace non può essere soltanto uno slogan da gridare alle manifestazioni, prima di tutto è una pratica, una ricerca faticosa da affrontare giorno dopo giorno, nelle azioni e nei pensieri. Quell’anno ha cambiato la mia vita, come l’obiezione di coscienza al servizio militare la cambiò a tanti. Recentemente ho dovuto approfondire la figura di Don Giussani e mi sono imbattuto in quella sua frase, che poi è un imperativo a cui è difficile sottrarsi, per credenti e non: “Non voglio vivere inutilmente”. I dodici mesi trascorsi agli “Ospizi” furono esattamente così.

Mauro Ferri

Commenti

L'email è richiesta ma non verrà mostrata ai visitatori. Il contenuto di questo commento esprime il pensiero dell'autore e non rappresenta la linea editoriale di PiacenzaSera, che rimane autonoma e indipendente. I messaggi inclusi nei commenti non sono testi giornalistici, ma post inviati dai singoli lettori che possono essere automaticamente pubblicati senza filtro preventivo. I commenti che includano uno o più link a siti esterni verranno rimossi in automatico dal sistema.