Capire quel che si considera famiglia – viaggio in Kenya

Ottantatré anni e nessuna voglia di fermarsi: così Alberto Gromi, uno dei più celebri presidi in pensione piacentini, il 20 luglio è partito per il suo decimo viaggio in Kenya per “accompagnare persone a cui voglio far conoscere quest’esperienza”. Gromi è atterrato a Nairobi, dove alloggia in una struttura gestita dalla onlus Koinonia, che in Italia è supportata dell’associazione milanese Amani, e si occupa dei bambini di strada. “Ritroverò amici e educatori: là è come una grande famiglia”, dice. “Farò visita anche all’ambulatorio e casa per bambini disabili gestiti dalla piacentina Francesca Lipeti, a Ilbissil, e alle suore Figlie di Sant’Anna, che a Lengesim hanno aperto un ospedale e una scuola materna. Insieme a lui anche l’operatore Caritas Davide Marchettini e la volontaria Rita Parenti.

Ecco il suo diario dal Kenya – 2 agosto

Oggi è stata dura, molto dura. Tutte le emozioni di queste giornate hanno trovato un catalizzatore che ha formato una nube portatrice di gocce che si chiamano lacrime. Ma cominciamo dall’inizio. Koinonia Community e Amani for Africa da sempre hanno capito che non basta togliere i bambini e le bambine dalla strada. Il posto per un bimbo è una famiglia. Sembra una riflessione lapalissiana, ma non sognatevi nemmeno di provare a capire come fare, non ne verreste mai a capo. In questi anni Amani e Koinonia le hanno studiate tutte (pensate, per esempio, alle casette che, alla Casa di Anita, ospitano due famiglie ognuna delle quali si occupa dei figli naturali e di una dozzina di bambine).

Questa mattina abbiamo incontrato le persone che in carne e ossa oggi rappresentano l’esito di questo lungo percorso di riflessione: il progetto “Families to families”. Alla luce di quel che ho sentito, in un lungo incontro, da Jane, una dei responsabili del progetto, non riesco nemmeno ad accennare alla complessità dell’impresa di chi vuole recuperare un bambino o una bambina alla sua famiglia. Innanzitutto: c’è ancora una famiglia a cui riferirsi? Noi occidentali pensiamo alla famiglia (scusate la semplificazione, so bene che cosa bolle in pentola su questo tema anche in Italia) come un nucleo ben definito: genitori, figli, nonni, nonne, zie e zii, cugini e cugine…A questo punto il legame familiare si allenta sempre più. In Kenya (e in Africa in generale) la cosa è molto più complessa e la famiglia ci appare come un nucleo allargatissimo che comprende cuginanze di ogni genere e di ogni generazione.

Ancora: il bambino è pronto a rientrare in famiglia da cui molto spesso è fuggito? Ci può essere qualcosa che lo trattiene nel centro che lo accoglie? Quanto tempo ci vuole, che percorso è necessario e quanto lungo per arrivare al reinserimento? Ma il reinserimento, una volta avvenuto, è garantito per l’eternità? Chi e come si può verificare? Il reinserimento di un bambino non rischia di mandare all’aria il già delicatissimo equilibrio economico di una famiglia? Ecco allora che questa mattina abbiamo sentito parlare di counselor, di psicologi, di assistenti sociali, di eventi di avvicinamento, di impegni di vicinato, di consiglieri economici che aiutano le famiglie ad aggiustare il bilancio, e non ricordo più di che altro. E ho avuto una informazione agghiacciante: una famiglia media in Kenya vive con 10.000/15.000 scellini al mese (con il cambio odierno 64/96 euro). Per esemplificare siamo stati portati in una casa di lamiera di una baraccopoli. Seduti in una stanza di circa tre metri per tre (la vedete in foto, autorizzata), abbiamo ascoltato due storie.

LA STORIA DI B. – B. ha 17 anni. Perde il padre ad appena pochi mesi di vita e la madre lo abbandona ad appena un anno per formare una nuova famiglia in un altro Paese. È affidato a una nonna insieme ad una sorellina; si occupa ben presto di lui una cugina, J. È una cuginanza stretta, B. e J. hanno la stessa nonna. Dopo qualche anno troviamo B. a Kivuli, il centro dove ora risiedo e dove, ieri sera, ho cenato con i bambini. Menù: pizza, chapati, lenticchie, würstel, verdura, una fetta di arancia e non ricordo che altro. Non so perché B. sia arrivato a Kivuli, probabilmente ha scelto la libertà sulla strada. Oggi B., 17 anni, frequenta, con una borsa di studio che comprende anche il collegio, il terzo anno della scuola secondaria (in quasi tutto il mondo la scuola secondaria dura quattro anni). È molto bravo. Potrebbe andare all’università, ma, vista la situazione economica, molto probabilmente sarà avviato alla formazione professionale. B. ha sempre aspettato che la madre tornasse da lui, ma proprio in questi giorni è arrivata la notizia che la madre è morta nel Paese ove aveva scelto di vivere, lasciando una piccola di sei mesi. B. non lo sa ancora, riceverà la notizia al rientro dal collegio alla fine del trimestre, il 12 agosto. B., dopo un lungo percorso, è affidato alla cugina J.

LA STORIA DI J. – J. ha 34 anni, il doppio di B. Lo ha praticamente allevato per diversi anni e quindi è stata ritenuta la persona più adatta per il reinserimento in famiglia. J. vuole bene a B., gli ha fatto da mamma. Quel bambino, però si è fatto uomo e la relazione è complicata. “È più alto di me – ci dice J. – e qualche volta mi rinfaccia cose”. Che cosa può rinfacciare B. a chi lo ha allevato e ora lo accoglie in famiglia? “Mi dice che a Kivuli gli erano garantiti tre pasti al giorno – risponde J. con la disperazione negli occhi -, ma io posso garantirgli solo due pasti, e non sempre”. “B. è un ragazzo chiuso – ci dice ancora J. -. Quando torna dal collegio non ha amici qui, rimpiange gli amici di Kivuli e va a trovarli quando può”. A questo punto la nube ha sciolto le lacrime e tutti mi hanno visto piangere. Ma perché?

1. Una media famiglia keniana, oggi, può garantire ai figli non più di uno o due pasti al giorno. Se riaccoglie un figlio in famiglia deve fare conto che lo priva di un pasto.

2. Il soggiorno nei centri come Kivuli – ci dice Jane che ci accompagna – non dovrebbe durare più di tre/quattro anni altrimenti il reinserimento diventa molto difficile. Negli anni Settanta chiamavamo questo legame stretto con i centri di accoglienza “istituzionalizzazione”.

“La famiglia non è perfetta… ma la famiglia è la famiglia”, leggiamo sul muro di “Families to families” e “L’importante è capire quel che il ragazzo sente come sua famiglia” conclude Jane.

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