“Eccola lì, la voce di John, chiara e limpida” Ascoltiamo l’ultima canzone dei Beatles

L’ULTIMA CANZONE DEI BEATLES – L’attesa è terminata. Oggi pomeriggio alle ore 15, in contemporanea mondiale, è stata trasmessa dalle radio e su tutte le piattaforme “Now and Then”, l’ultima canzone dei Beatles. L’aveva annunciata Paul McCartney lo scorso giugno, e le sue parole sul ricorso all’Intelligenza Artificiale avevano suscitato clamore, dividendo i fan e la critica. Ma si è trattato di un vero e proprio equivoco. Non c’è nessuna contraffazione. Nessun trucco. Nuove sofisticate tecnologie sono state utilizzate soltanto per restituire forza alla voce di John Lennon, che ha scritto il brano e lo ha interpretato alla fine degli anni Settanta nel suo studio newyorchese al Dakota Building; era stata Yoko Ono a far recapitare un nastro a McCartney, insieme alle demo di “Free As A Bird” e “Real Love”, poi pubblicate nella Anthology. Un nastro sul quale lo stesso McCartney ha lavorato con dedizione, aiutato da Giles Martin (figlio del grande George), chiedendo a Ringo Starr di registrare il suo contributo, aggiungendo la linea del basso e un bell’assolo “slide” alla parte di chitarra registrata da George Harrison nel 1995.
E il risultato è straordinario.

“Eccola lì, la voce di John, chiara e limpida”, ha dichiarato Macca: “È molto emozionante”.
La canzone è una ballata nello stile agrodolce tipico dell’ultimo Lennon, con un ritornello accompagnato da un profluvio di archi e di cori: ai più romantici e ai nostalgici di un grande passato non sfuggirà l’aggiunta dei backing vocals provenienti dalle registrazioni originali di classici come “Here, There and Everywhere”, “Eleanor Rigby” e “Because”. Un colpo al cuore, per tutti quelli che li hanno amati: è davvero impossibile non commuoversi, conoscendo tutta la loro intera traiettoria.
Perché “Now and Then” suona come una vera canzone dei Beatles.
E suona come un meraviglioso epitaffio.

Per uno strano scherzo del destino, il titolo coincide infatti con le ultime parole di John a Paul, durante un incontro (quasi clandestino) a New York: “Think about me every now and then, old friend”. Lo stesso sembra dire la frase finale della canzone: “I miss you/Oh, now and then/I want you to return to me/Now and then”.
Perché, prima di tutto, la loro è stata – ancor più che la storia della più grande band di tutti i tempi – una grande storia di amicizia. Una storia umana, troppo umana, che si era interrotta davvero in malo modo.
Quando “Let It Be” fece la sua comparsa, dei Beatles non restava più nulla. Era l’8 maggio del 1970 e nemmeno un mese prima, il 10 aprile, Paul McCartney aveva annunciato la sua uscita dal gruppo. Una settimana dopo venne pubblicato il suo primo lavoro solista. “Let It Be” era così un disco postumo, nato dalle ceneri del progetto – poi abbandonato – di “Get Back”, che doveva essere, nelle intenzioni dello stesso McCartney, una sorta di ritorno alle origini, al periodo dell’innocenza vissuto tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta in una Liverpool povera e tetra, che con grande fatica si stava riprendendo dalle ferite e dalle devastazioni della guerra. Un ritorno, ovvero, al sound sporco e urgente della loro adolescenza, un suono registrato in diretta, senza sovraincisioni, mixaggi e altri effetti speciali. Un omaggio al caro vecchio rock’n’roll, con il quale i quattro erano cresciuti da ragazzi, avendolo conosciuto grazie ai dischi che i marinai americani facevano arrivare in città; il rock’n’roll che avevano suonato in centinaia di travolgenti esibizioni nei locali sporchi e malfamati della loro città natale. Perché, a dispetto dell’immagine stereotipata dei FabFour, il loro sound – prima del lavoro del manager Brian Epstein, che com’è noto li aveva ripuliti e resi presentabili – era tutt’altro che patinato, o peggio stucchevole; chi ha potuto assistere a quei concerti nella città natia parla di “un’apoteosi selvaggia”. Quei quattro ragazzi provenienti dalla classe operaia del nord, reduci da una dura gavetta in Germania, con il loro magnetismo e la loro energia erano riusciti a toccare i nervi scoperti di un’intera generazione, che era sul punto di ribellarsi. Ha scritto Bob Spitz: “Da dietro quello stridente muro sonoro e quella cortina di pelle nera, avevano rivendicato con forza un posto nella storia”.
Come sappiamo, non è andata come si augurava Paul. Le session di Get Back non avevano soddisfatto nessuno, anche se c’era stato quel formidabile colpo di coda – il 30 gennaio 1969 – del concerto sul tetto della sede della Apple, in Savile Row a Londra, e quindi erano state accantonate per intraprendere la scrittura di “Abbey Road”: un disco eccezionale, ma composto per lo più da contributi solisti.

Il clima tra i quattro era sempre più teso. Dopo la morte di Epstein, si erano sentiti persi. Paul accusava John di aver sempre preteso di imporre la sua leadership, glissando sul fatto che, da “Sgt. Pepper’s” in avanti, si era fatto avanti lui: “Mi spaventa fare il capo, e sono due anni che lo faccio”, ammise durante le riprese di “Get Back”, riproposte da Peter Jackson nell’omonimo docufilm. Oddio, le invidie e le gelosie tra i due erano sempre esistite, per esempio per intestarsi il lato A dei singoli o il brano di apertura di un album. Ma ora la situazione stava franando sotto i loro stessi occhi, e nel tentativo di salvare la baracca Paul metteva in mostra i muscoli, facendo innervosire Ringo e George. Quest’ultimo, in particolare, era sempre più amareggiato per il poco spazio che i due leader gli lasciavano, pur avendo dimostrato di poterli raggiungere sul loro piedistallo.
Insomma, la colpa non fu (solo) delle donne, come vulgata racconta. Certo, l’invadenza di Yoko Ono è faccenda nota, così come le intromissioni della famiglia di Linda Eastman nella gestione economica di Apple e dintorni.
Forse la verità, più semplicemente, è che non erano più i ragazzi che scorrazzavano tra le strade di Liverpool alla ricerca di un posto dove suonare alla sera, che affrontavano un tour tra le highlands scozzesi su un pulmino sgangherato senza più il parabrezza, che suonavano per dieci ore a fila nei localacci del porto di Amburgo, dormendo insieme nel sottoscala di un cinema a luci rosse. Erano diventati degli uomini, ed erano uomini molto diversi tra loro, attratti da nuove e disparate cose: basta ascoltare i primi rispettivi dischi solisti per rendersene pienamente conto.

Ecco allora che “Now and Then” li rimette, anche solo per pochi istanti, per pochi attimi straordinari, ancora tutti insieme: a 53 anni dallo scioglimento della band, 43 anni dalla morte di Lennon, 22 da quella di Harrison. Una reunion inattesa, anche se soltanto virtuale: su YouTube è disponibile un documentario di dodici minuti firmato da Oliver Murray (la cover è dell’artista californiano Ed Ruscha, il videoclip di Peter Jackson). Quella reunion per tanto tempo auspicata e rivelatasi sempre impossibile.
Non poteva essere, infatti, che l’irripetibile vicenda dei Beatles potesse concludersi con le scaramucce e i reciproci sberleffi di “How Do You Sleep?,” di “Wah Wah” o di “Too Many People”. Non se lo meritavano loro, e non ce lo meritavamo noi.
Sta qui, quindi, l’importanza di “Now And Then”, per il cui Lato B è stata scelta “Love Me Do”, ovvero il primo singolo dei Beatles (1962): “la quadratura del cerchio”, è stato scritto.
Ha commentato Ringo: “È stata l’esperienza che più ci ha avvicinato ad averlo di nuovo nella stanza con noi, è stato davvero emozionante per tutti. È stato come se John fosse lì, capite. È stato fantastico”.
Non poteva esserci epilogo migliore.

P.S. 1: Per chi dovesse ancora avvicinarsi alla musica dei FabFour, l’altra buona notizia è la riedizione dei due mitici greatest hits, ovvero l’Album Rosso (1962-66) e l’Album Blu (1967-1970), riveduti e ampliati con l’ingresso di alcune canzoni di Harrison precedentemente ignorate (“Taxman”, ad esempio). Ma a stupire di più – pare – sarà il lavoro sul sound dei brani del primo periodo, riportati all’originale immediatezza; Martin ha così commentato: “Adesso suonano davvero come un gruppo di punk. Sono quattro ragazzi in una stanza che fanno casino, e i loro primi dischi erano esattamente questo”.

P.S. 2: Lo fanno solo per soldi, dirà qualcuno, citando Frank Zappa (“We’re Only in It for the Money”). Effettivamente, sarebbe (stato) bello destinare i proventi a una qualche giusta causa.

Giovanni Battista Menzani