Tra libri d’artista, video installazioni e fotografia, il contemporaneo è protagonista a Alfabeto Bianco

Testo di Jennifer Ravelli – In via Nova 53 a Piacenza uno spazio espositivo ha inventato un Alfabeto Bianco come la pagina, come la tela, come le quattro sale a volta che accolgono ogni visitatore curioso, competente o meno in materia di linguaggi più che di linguaggio. Fino alla fine di marzo 2024, Alfabeto Bianco proporrà una selezione di opere fotografiche di Gordon Matta-Clark accanto a lavori di Giorgio Andreotta Calò, donna Kukama e Hans Schabus.

Sintetizzare il percorso artistico di Gordon Matta-Clark sarebbe impresa ardua, nonostante la breve vita di uno degli artisti concettuali più influenti del secondo Novecento. Laureatosi in architettura alla Cornell University, capace come pochi altri di indagare lo spazio e di squadernare tutte le potenzialità dell’arte, Gordon Matta Clark sperimenta alfabeti diversi (fotografia, film, video, disegno, scultura, collage di foto…) per mettere in luce gli aspetti più coraggiosi del legame tra architettura e ambiente.

Il trittico del 1974 “Bin-go–ne by”, precedentemente esposto a New York nel 2007, viene
accompagnato da un dittico proveniente dalla collezione di Robert Rauschenberg, ma è l’Arc de
Triomphe realizzato l’anno successivo a catalizzare l’attenzione dello spettatore. Un trionfo tutto
italiano che si avvicina a una débâcle, se si pensi che l’opera non venne mai realizzata. Con la
macchina fotografica di Giorgio Colombo, Gordon Matta-Clark effettuò un primo sopralluogo alla
fabbrica di Sesto San Giovanni, ma non riuscì mai a reinterpretarne concretamente né tantomeno a
manometterne la facciata.

Precedente, Infraform, un progetto ideato e sviluppato durante un viaggio in Italia, che giunse a
compimento tre anni prima della sua morte. È infatti proprio l’Italia in cui si annovera il maggior
numero di interventi di Gordon Matta-Clark, Stati Uniti a parte. Il che giustifica ulteriormente il
rinnovato interesse per le influenze che ebbe la sua ricerca sulle generazioni successive. Proprio in
questa ottica si inserisce la mostra di Alfabeto Bianco.

L’anno dopo la morte di Gordon Matta-Clark nascerà Giorgio Andreotta Calò, artista veneziano che indaga spazio, luce e materia, stimolando la riflessione sulla relazione tra individuo e ambiente. In Icarus (ramo) semplicemente un ramo spoglio e un bozzolo di falena Argema Mimosae. Natura e scultura giocano a nascondino e affrontano coraggiosamente la vita e la morte regalandoci la
sorpresa di un’epifania. Da una natura apparentemente morta alla vitalità del volo, il passo può
essere più o meno breve, certamente mai scontato.

Sempre di volo si tratta nel video di donna Kukama The swing (after After Fragonard) realizzato nel 2009 a partire da una performance che ebbe luogo nel Mai – Mai Market dei sobborghi di
Johannesburg. Grazie alla performance art, la frivola leggerezza rococò del quadro di Fragonard si
trasforma in una protesta concreta e la ripetitività del movimento dell’altalena culmina in un climax
che converte il volo in un tonfo.

Una porta su di un fazzoletto verde conduce poi verso Vogeltränke (to cast one’s Mind back into
Mould) di Hans Schabus. L’artista austriaco, attualmente professore di scultura e di progettazione spaziale all’Università di Arti Applicate di Vienna, riconverte audacemente il tentativo fallito di un autoritratto in bronzo in un abbeveratoio e posatoio per uccelli. La scultura a braccetto con la natura, come nell’Icarus di Giorgio Andreotta Calò, spiazza il visitatore e lo obbliga a concedersi il tempo dell’attesa. Tante le associazioni libere, altrettante le domande. Le prospettive si intersecano e le suggestioni si arricchiscono di rimandi.

A conclusione del percorso, in una delle sale della galleria viene ospitata la libreria GialloSenape
per approfondire il libro d’artista attraverso un confronto fra Antonio Ottomanelli, Gordon Matta-Clark, Wall Paper, Cut, Split & Eat, La partizione del sensibile e Circus: The Caribbean Orange.

Libri d’artista più o meno fotografici, corredati o privi di didascalie, in esemplare unico o in copie
numerate e parole che delineano poetiche convergenti che non vedono l’ora di tessere intrecci tutti
da raccontare.

Ed è proprio l’urgenza di raccontare che ha bisogno più che mai di un Alfabeto Bianco che venga
colorato attraverso i laboratori creativi dedicati ai bambini o che possa essere ascoltato nelle
presentazioni di libri, anche quando non d’artista. Un alfabeto che non imprigioni l’arte in un
microcosmo di addetti ai lavori, ma la liberi da ogni barriera linguistica o culturale. Un alfabeto
capace di far scendere dal piedistallo le gallerie d’arte e ce le renda finalmente un po’ più familiari.

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