Addio al partigiano Pino Fumi, aveva 98 anni “Il combattente errante della Resistenza”

È morto questa mattina all’età di 98 anni il partigiano Giuseppe “Pino” Fumi. Nato a Piacenza il 14 giugno 1925, si arruolò, poco più che diciottenne, nella terza brigata Giustizia e Libertà, guidata dal comandante Alberto Araldi “Paolo”. Insegnante di scuola elementare fino al 1979.

“La volontà di reagire alla chiamata di Mussolini era già dentro di me da tempo – racconta Pino Fumi in un video pubblicato dal portale Noi Partigiani – ero sicuro di non voler collaborare mai con quella gente. All’inizio pensavo di stare nascosto, ma in città è impossibile perché tutti si conoscono. Ho provato e mi è andata bene un paio di volte per miracolo: una volta sono stato fermato a San Rocco al Porto dalla X Mas, ma con uno stratagemma sono riuscito a cavarmela. Dissi che sarei andato a prendere i documenti a casa, poi uscii dal retro e fuggii. Una seconda volta mi salvò il parroco di San Savino che mi nascose sotto l’urna del Santo nella cripta della basilica. Ma poi, visto che non potevo più stare nascosto, dovetti fare una scelta obbligata: i fascisti minacciarono mio padre affinché io mi presentassi, e così lo feci”.

La storia di Pino Fumi è stata raccolta nel libro “Ribelli all’ombra della Pietra” edito da Officine Gutenberg, di Iara Meloni e Giovanni Battista Menzani sulla Resistenza in Val Trebbia e nel territorio di Travo. Ecco un estratto del capitolo dedicato a Fumi:

Ben presto, con la costituzione della Repubblica di Salò, vennero emessi i decreti per la chiamata forzata alle armi dei giovani e lui, con la ferma convinzione che aveva di non far parte di quella cosa che non gli piaceva per niente, cominciò a nascondersi. Dapprima andò al di là del grande fiume, da sua nonna, nella zona di San Rocco al Porto; ma proprio lì, un giorno che era appena fuori la soglia di casa a osservare il cielo, gli piombò addosso un gruppetto della X MAS che gli chiese di esibire i suoi documenti. Lui inizialmente pensò che era perduto, ma poi ebbe la buona idea di dire che non li aveva in tasca e che sarebbe entrato nel tinello per prenderli. Appena dentro, si lanciò fuori come un razzo da una porta secondaria sul cortile, e inforcata una bicicletta si infilò nelle boschine di pioppi sulle rive del Po. Dove, allora più di oggi, c’era sempre qualche barcaiolo che trasportava sabbia o ghiaia o altro materiale sfruttando la corrente, e quindi fu facile per lui farsi traghettare sull’altra sponda; rientrò in città che era buio. In un primo momento rimase nascosto in casa, ma non poteva certo stare tranquillo, in quanto viveva in un quartiere in cui tutti, fascisti e non, sapevano che lui avrebbe dovuto essere a militare. Qualcuno avrebbe potuto fare la spia. Per qualche giorno si nascose di qua e di là, girovagando un po’ a caso. Poi, sempre più preso dalla paura, si recò presso la canonica di San Savino, il cui parroco era appunto una persona di cui si poteva fidare. Il religioso lo nascose nella cripta della chiesa, tra quei meravigliosi capitelli e i fantastici mosaici del XII secolo, sotto l’urna di vetro che custodiva il corpo del Santo (quest’urna adesso è in Duomo, e contiene le spoglie di monsignor Scalabrini!). Rimase intrappolato lì dentro per un po’ di tempo, in verità lui non sa dire per quanto, era difficile accorgersi dello scorrere del tempo in quelle condizioni; forse qualche giorno. In ogni caso, da laggiù riusciva a sentire il rumore degli scarponi dei militari che entravano nella millenaria basilica per controllare che non ci fosse qualche rifugiato o qualche disertore. In San Savino si nascondeva anche il giovane Don Giovanni Bruschi, che ritroveremo poi; un giorno si presentarono due fascisti a cercarlo, ma il parroco li convinse che da quelle parti non lo avevano visto. Don Bruschi si era nascosto anche in casa del Pino stesso, all’occorrenza, finché poi – secondo lui – riuscì a scappare in Svizzera (anche se le date non le rammenta più).
Fu il contatto con quest’uomo eccezionale, fu il vedere il modo elegante e saggio con cui parlava e con cui si muoveva, insieme alla rabbia che stava sempre più accumulando dentro in quei giorni fatidici per le sorti del nostro paese, che fece maturare in Pino la volontà di entrare nei partigiani. Allora, infatti, si cominciavano a sentire in giro alcune notizie in merito alla costituzione di gruppi armati. D’altronde, che cosa poteva rischiare? Più di quello che stava già rischiando, si intende. Unirsi alla Resistenza che stava per sbocciare gli avrebbe dato, dice lui adesso, a essere sinceri fino in fondo, la possibilità di porre fine all’incubo di una fuga infinita, di una necessità continua di nascondersi di qua e di là. Un incubo che iniziava a soverchiarlo.

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