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I giovani immigrati cambieranno il nostro paese?

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I giovani immigrati cambieranno il nostro paese? La riflessione di Gian Carlo Sacchi

Diverse ricerche in questi ultimi tempi hanno analizzato la possibilità che anche in Italia, com’è accaduto in altri Paesi, se i giovani stranieri non avranno a disposizione risorse per raggiungere una posizione sociale migliore dei loro genitori, svilupperanno opposizione, rancore e antagonismo verso le società che li ospitano e le loro regole. La loro presenza nella scuola primaria reca beneficio all’intera comunità di apprendimento, sotto il profilo dell’approccio interculturale e interlinguistico, ma proseguendo nel percorso scolastico i giovani stranieri, anche quelli nati in Italia, hanno risultati peggiori rispetto ai coetanei italiani, indirizzandosi verso scuole più professionalizzanti. Questo perpetua la distinzione che nel nostro sistema non si è ancora superata tra lo studio e il lavoro, che socialmente sa ancora di discriminazione, un tempo per censo e oggi per condizione economica e culturale.

Ma i ragazzi stranieri freneranno la modernizzazione culturale? La risposta è negativa se saranno messi in grado di far fruttare i loro talenti, affinché possano realizzare percorsi di mobilità sociale, dando così una spinta alla costruzione dell’Italia di domani che rischia lo stallo anche per ragioni demografiche. Difficilmente infatti si potranno fermare i flussi in ingresso, compresi i minori non accompagnati, è l’integrazione multiculturale che deve evitare il formarsi di società parallele, come già esisteva ai tempi di don Milani per diverse aree del nostro Paese, ma pur avendo soggettività diverse si arricchiscono reciprocamente grazie all’interazione dei propri specifici tratti. Questa società interculturale va costruita ogni giorno nei diversi contesti locali; se i ragazzi stranieri resteranno relegati in ruoli subalterni, come gran parte dei loro genitori, allora l’intercultura resterà una parola vuota. Nel sistema italiano dove le modifiche sono faticose o forse più apparenti che reali, sia nell’ambito pubblico che in quello privato, l’immigrazione agisce più in direzione del cambiamento che della conservazione. E per i giovani del nostro territorio quali sono i problemi relativi alla presenza degli immigrati? Una ricerca non tanto recente, ma forse l’unica di questo genere, evidenzia che i giovani piacentini ritengono sovradimensionato il fenomeno migratorio, percepito in modo molto più esteso di quanto non sia e il giudizio appare più aperto e accogliente rispetto ad analoghe valutazioni nazionali e della popolazione adulta. Si tratta di “dissonanze cognitive”, sottolinea Paolo Rizzi, curatore del rapporto, dovute alle continue campagne di comunicazione che hanno creato negli ultimi anni sentimenti di accerchiamento o di invasione degli stranieri.

La valutazione dei giovani sui motivi che spingono gli immigrati a lasciare il loro paese, prima ancora del lavoro prevale la consapevolezza che queste persone affrontino rischi e fatiche alla ricerca di una vita migliore, perché in fuga da paesi dove prevalgono violenza, povertà, sopraffazione. Una netta maggioranza degli intervistati afferma che gli immigrati arricchiscono la vita culturale italiana ed abbiano un impatto complessivamente positivo sulla nostra economia e una netta minoranza afferma che peggiorano i problemi della criminalità. Questo atteggiamento dei giovani è legato alla convivenza ormai consolidata con coetanei di diverse etnie e provenienze che rende del tutto “normale” lavorare, studiare e giocare con giovani stranieri. Sulla moschea a Piacenza una stragrande maggioranza è favorevole perché crede che sia giusto e democratico permettere a chiunque di professare la propria religione in un luogo specifico a ciò deputato. L’apertura deriva dal fatto che si vedono a loro volta migranti quasi la metà degli intervistati, in rapida crescita; ai giovani preoccupa di più la perdita dei cervelli, che sia una seria minaccia alla qualità della vita sul territorio. Questa tendenza riflette una diffusa esigenza di conoscenza e di scambio culturale e professionale, ma può anche segnalare i problemi concreti del mercato del lavoro ed il crescente confronto tra domanda e offerta.

Sono dunque le culture giovanili che vengono rielaborate e reinterpretate secondo gli elementi culturali appresi ed ereditati, che, appropriandosene, i giovani le trasformano e ne modificano i significati. Sarà necessario affrontare le forme di multiculturalismo quotidiano: quali differenze vengono utilizzate da giovani che hanno a disposizione un repertorio vario di identificazioni e di distinzioni? Queste sono date dalle reti sociali che stanno intorno e che sostengono le diversità. C’è bisogno pertanto di imparare a capire le differenze, che ci sono persone con diversi pensieri, diversi vestiti, diverse fedi, ma che si è tutti italiani: educazione interculturale. Non si tratta, come nella generazione precedente, di rivendicare un diritto alla differenza, ma i giovani sentono di appartenere alla società in cui sono cresciuti ed esprimono una domanda di eguaglianza, chiedono di essere riconosciuti come cittadini. Un buon livello di istruzione e buone capacità riflessive favoriscono un distanziamento critico dalle visioni reificate di identità e cultura e permettono di moltiplicare le appartenenze facendo un uso strategico della differenza. La principale sfida politica sta nel promuovere la partecipazione dei figli degli immigrati e delle loro famiglie e la scuola in tutti i suoi gradi può diventare un vero laboratorio di cittadinanza interculturale, in modo da avere più tempo e risorse da investire nella vita pubblica; potrebbero sorgere nuovi spazi di discussione e probabilmente le frontiere simboliche sarebbero più porose, gli attraversamenti verrebbero vissuti in modo meno traumatico. Sono infatti più capaci di navigare tra le differenze i giovani che hanno un buon capitale culturale e familiare.

_Gian Carlo Sacchi

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