“Ero un avvocato, poi ho cominciato a bere. Pensavo che i problemi si risolvessero così”

“Ero un avvocato, poi nel 2017 sono cominciati i problemi in famiglia e al lavoro. Così ho cominciato a bere, pensando che i miei problemi si risolvessero così”. Luca ha 49 anni e ad aprile terminerà il suo percorso nella comunità Emmaus di Piacenza, dopo un anno e mezzo di permanenza. Emmaus, gestita dall’Associazione La Ricerca, è una struttura residenziale per giovani con problemi di dipendenza patologica a cui si aggiungono complicanze di natura psichiatrica. A stretto contatto con chi la comunità la vive, ci si accorge di quanto è poca la distanza fra “noi” e “loro”, quelle persone da cui ancora molti preferiscono stare alla larga. In realtà “loro” siamo noi, con le nostre debolezze e fragilità, raccontate con una lucidità che fa gelare il sangue nelle vene. Il punto di non ritorno Luca l’ha conosciuto due anni dopo l’inizio della dipendenza. “Ho tentato il suicidio – racconta – poi sono entrato in comunità e ci sono rimasto per tre anni e mezzo. Quando sono uscito pensavo che il problema fosse risolto, ma in realtà non stavo bene. Dopo tre mesi sono ricaduto. Da lì è cominciato un nuovo crescendo di alcolismo e ho manifestato di nuovo la mia voglia di morire. Mi hanno ricoverato in pronto soccorso, poi in psichiatria e infine in Rti (Residenza trattamento intensivo, ndr). Mi hanno diagnosticato il disturbo dell’umore di cui soffro da quando avevo 25 anni, il bipolarismo”.

comunità emmaus associazione la ricerca

Dopo aver toccato il fondo, Luca, pian piano e non senza difficoltà, ha ricostruito il puzzle della sua vita. “Con un mio compagno di stanza – confida – faccio spesso una riflessione su due concetti chiave del mio percorso: la fatica e la rinascita. Fatica nell’affrontare gli avvenimenti negativi della mia vita, nel comprendere e apprendere il mio disturbo e la mia malattia, nel comprendere di aver distrutto quel poco di vita che mi rimaneva, costruito con tanti sforzi. E la fatica di affrontare la psichiatria. A febbraio 2023, dopo due mesi in Rti, desideravo fermarmi in comunità e non tornare a casa. Così ho incontrato Emmaus ed è cominciato il mio percorso di rinascita”. Col tempo, sono tornate anche quelle relazioni rovinate quando sono iniziati i problemi di alcolismo. “La cosa più importante – dice Luca – è stata il recupero non solo di me stesso, ma soprattutto dei miei rapporti familiari, con la mia compagna e con i miei amici. Mia madre, mio zio e mio fratello mi stanno aiutando molto, pian piano tutto sta ritornando come prima. La mia compagna vive a Padova e riesco a incontrarla solo una volta al mese, ma ci sentiamo spesso al telefono. La comunità fa da intermediario fra me e lei. Lo scorso Natale è venuta a trovarmi e abbiamo passato un bellissimo periodo insieme. Adesso la comunità mi sta aiutando a trovare un lavoro e completare così la rinascita, per tornare in società a vivere”.

Nell’ultima fase del percorso, dopo aver “superato” tutti gli step, Luca può uscire dalla comunità in autonomia per andare a prendere un caffè o fare una passeggiata. L’équipe di Emmaus, comunque, conosce tutti i suoi spostamenti e controlla che gli ambienti frequentati siano tutelati e non presentino il rischio di entrare in contatto con sostanze di vario tipo. Spesso Luca esce insieme a un operatore per andare a svolgere lavori manuali. “Tutti i sabati vedo mia madre e due volte al mese trascorro una domenica a casa con lei”. Prossimo all’uscita, Luca lancia un appello a tutti coloro che si trovano in una situazione di difficoltà: “Non vergognatevi a chiedere aiuto, affidatevi ai medici, affrontate il problema con umiltà”. “Fra tre mesi uscirò e andrò a stare con mia madre – conclude – spero di trovare un lavoro e di ricominciare una nuova vita, a Dio piacendo”. Se Luca è quasi alla fine del percorso, Silvia (nome di fantasia) è entrata nella comunità Emmaus da meno di un mese. Le difficoltà per Silvia, che oggi ha 48 anni, sono iniziate dopo il lockdown. “Sono andata in depressione a causa di alcuni accadimenti negativi e mi sono rifugiata nell’alcool. Bevevo due bottiglie di vino al giorno, stavo meglio, ero convinta che fosse la cura ai miei mali”.

“Quando ho tentato il suicidio – racconta – nel mio corpo c’era un mix di alcool e farmaci: da settembre 2023 a gennaio 2024 ho continuato a cambiare ospedali in cerca di una cura vera. Quell’esperienza mi ha aperto gli occhi, ho capito che dovevo fare qualcosa. Lo devo a mia figlia e a me stessa. Perciò ho scelto di cominciare il percorso in comunità, anche per evitare ai miei genitori anziani di sopportare il peso della situazione”. Durante il primo mese e mezzo, nel periodo “dell’osservazione”, ai pazienti sono limitati i contatti con l’esterno. Silvia, però, è certa che sua figlia adolescente vive in un luogo sicuro. “Qui sono stata accolta bene sia dagli operatori che dagli altri pazienti – dice -. Ora sto meglio, ho ancora qualche crisi ogni tanto ma rientra nella normalità. Un consiglio a chi si trova in una situazione simile alla mia è di farsi aiutare per continuare a vivere”.

_Francesco Petronzio

Commenti

L'email è richiesta ma non verrà mostrata ai visitatori. Il contenuto di questo commento esprime il pensiero dell'autore e non rappresenta la linea editoriale di PiacenzaSera, che rimane autonoma e indipendente. I messaggi inclusi nei commenti non sono testi giornalistici, ma post inviati dai singoli lettori che possono essere automaticamente pubblicati senza filtro preventivo. I commenti che includano uno o più link a siti esterni verranno rimossi in automatico dal sistema.