Dagli scioperi contro il fascismo all’esilio, la storia dimenticata della bottonaia Linda Fortunati

“Dagli scioperi alla Liberazione, le donne protagoniste della libertà” è il titolo del convegno del 23 marzo alla Casa della Memoria di Milano dove anche l’Anpi (l’Associazione nazionale partigiani d’Italia) di Piacenza ha portato un suo importante contributo. La presidente della sezione di Piacenza Giulia Piroli ha raccontato la storia dimenticata di Linda Fortunati, una delle bottonaie piacentine che negli anni ’30 ebbero il coraggio di scioperare e di opporsi alle imposizioni del regime fascista.

L’Anpi di Piacenza, tramite il presidente Romano Repetti che ha ricostruito la storia di Linda Fortunati, espatriata in Francia dopo la fine della Seconda Guerra mondiale e di cui si sono perse le tracce. Per questo ha chiesto qualche anno fa informazioni al comune francese di Vincennes, nel quale dai documenti di polizia dell’Archivio Centrale della Stato risulta aver risieduto Linda Fortunati. Non c’è stata però alcuna risposta. Linda merita di uscire dall’’oblio della memoria per il suo coraggio e la sua tenacia. Per questo riportiamo integralmente la storia portata da Piroli al convegno milanese organizzato dal coordinamento delle donne dell’Anpi.

L’opposizione al fascismo inizia negli anni Venti con la difesa da parte dei lavoratori e lavoratrici del livello dei salari. Le bottoniere piacentine furono protagoniste in quegli anni di numerose vertenze. Tra le quali spicca Linda Fortunati era nata il 6 gennaio 1894 a Piacenza All’indomani della Prima Guerra Mondiale era emigrata in Francia, a Lione, raggiungendo due fratelli. Lì si era unita in matrimonio con un altro piacentino, Dante Roda. Erano tutti emigrati in cerca di lavoro. Nel 1923 era rientrata con il marito a Piacenza e aveva trovato lavoro in un bottonificio della città. Piacenza aveva una storica specializzazione manifatturiera nella produzione di bottoni, industria a bassa tecnologia ed alta intensità di lavoro, con manodopera in prevalenza femminile. All’inizio del 1930 le quattro maggiori aziende bottoniere della città occupavano circa 2mila operaie e solo 200 uomini. Il 22 marzo di quel 1930, in tutti gli stabilimenti venne comunicato ai dipendenti che l’aumentata concorrenza internazionale e i protezionismi doganali avevano creato difficoltà all’esportazione e che di conseguenza era stata decisa una riduzione delle tariffe retributive orarie dal 10 al 20%. Il sindacato fascista aveva già provveduto a sottoscrivere quella riduzione e quindi non era prevista l’apertura di alcuna trattativa.

Sorprendentemente però le lavoratrici scesero subito in sciopero, lasciarono gli stabilimenti e in centinaia portarono la propria protesta nella sede del sindacato. Si disse loro che se non tornavano in fabbrica sarebbero state licenziate. Così il giorno dopo tutte si presentarono al proprio posto di lavoro ma in più di un migliaio restarono con le braccia incrociate. Il prefetto decise di far allontanare dagli stabilimenti tutte le operaie in sciopero, ne fece arrestare quindici e impegnò la polizia ad individuare precisamente i sobillatori. L’agitazione però continuò anche nei due giorni successivi, con manifestazioni in città e davanti alle carceri. Era una cosa inaudita sotto il regime fascista. Si fece sentire il ministro degli Interni, Leonardo Arpinati, e telegrafò lo stesso Mussolini. Quello scandalo doveva cessare, usando le maniere forti. Il prefetto, che si chiamava Carlo Tiengo, si rese però conto che oltre ad usare le maniere forti doveva svolgere anche qualche mediazione. La sera del 5° giorno di agitazione fece rimettere in libertà le operaie arrestate e impegnò il sindacato fascista a trattare con gli imprenditori un qualche contenimento delle riduzioni di paga. Nello stesso tempo mandò gli agenti di polizia direttamente a casa delle scioperanti ad intimare loro di riprendere il lavoro pena il licenziamento di tutte. L’agitazione si esaurì però del tutto solo il 31 marzo, cioè dieci giorni dall’inizio. E alla fine la riduzione delle tariffe orarie fu contenuta nel 5%.

Linda Fortunati
Linda Fortunati

Le autorità fasciste continuarono comunque a cercare i sobillatori. Pensavano che dovevano trovarsi fra i maschi, anche se proprio i duecento dipendenti maschi non avevano partecipato allo sciopero. Vennero arrestati e processati tre lavoratori ma alla fine si dovette rimetterli in libertà. In verità una certa organizzazione esterna c’era stata, c’era stato chi, senza farsi scoprire, personalmente, aveva promosso la lotta e ne aveva via via suggerito alle compagne le azioni da compiere. Era stata appunto la trentaseienne operaia Linda Fortunati. Attraverso i fratelli ed il marito la sua era stata una formazione antifascista, ma non faceva parte di alcuna organizzazione di opposizione al fascismo. Nella casa della sua sarta, era stata però sentita parlare delle temute riduzioni delle retribuzioni nella sua fabbrica dal fratello della sarta, Paolo Belizzi, un comunista che dal regime aveva subito cinque anni di confino. Da lui aveva avuto incoraggiamenti ed indicazioni per l’organizzazione dello sciopero delle bottonaie. L’organizzazione e la sua conduzione fu però merito tutte della intraprendenza, sagacia e tenacia di Linda. Dopo la ripresa del lavoro furono licenziate 50 operaie tra cui anche Linda.

Di quello sciopero vennero a conoscenza le organizzazioni antifasciste all’estero e Linda, tramite Paolo Belizzi, fu contattata ed accettò di espatriare clandestinamente in Svizzera per raccontare l’esperienza di lotta delle bottonaie piacentine ad un congresso a Zurigo della Cgil, ricostituita all’estero sotto la guida di Giuseppe Di Vittorio. Della sua partecipazione il responsabile organizzativo Mario Montagnana nelle sue memorie ha scritto: “Alcuni dei delegati avevano diretto essi stessi degli scioperi, come ad esempio quello di una importante fabbrica di bottoni, il quale era durato alcuni giorni e che si era chiuso con una parziale vittoria delle maestranze. La compagna che lo aveva diretto ci fece una viva descrizione delle varie fasi del movimento, mettendo in luce la grande combattività ed il coraggio degli scioperanti”. Linda fu poi aiutata a trasferirsi e a trovare lavoro in Belgio. Lì, per regolarizzare la propria posizione, si registrò, come previsto, con i suoi dati anagrafici, presso la polizia belga, che chiese conferma dei suoi dati al consolato italiano, il quale si rivolse alla prefettura di Piacenza. Dai documenti conservati nell’Archivio del Casellario Politico Centrale risulta che la Prefettura comunicò che i dati erano giusti ma che la Fortunati era “sospetta in linea morale e politica”, coinvolta nel “noto sciopero del marzo 1930”, “clandestinamente emigrata” e “persona pericolosa perché capace di polemizzare e di notevole intelligenza”.

Iniziò così la persecuzione politica della bottonaia piacentina, che dal suo lavoro in Belgio traeva anche qualche risparmio da mandare al marito. Per sottrarsi al controllo dell’Ovra, cambiò più volte alloggio e mutò il suo nome in Lisa, partecipando comunque a riunioni degli antifascisti e svolgendo attività politica. Le autorità consolari italiane all’inizio del 1934 riuscirono a farla espellere dal Belgio. Passò in Francia, sempre tenuta sotto controllo dall’Ovra. Copie di una sua foto furono distribuite in Italia anche ai posti di frontiera perché fosse identificata e arrestata nel caso di rientro in Italia. In una sua lettera indirizzata in quell’anno al marito così scriveva: “Caro Dante, sono triste perché in questo momento mi trovo disoccupata e anche in brutte condizioni, ma spero di andare a fare la donna di servizio a casa di un russo. Aggiungeva però: “Riguardo al tornare a casa – il marito l’aveva evidentemente sollecitata a farlo – credi tu che io potrei sopportare una tale umiliazione di fronte a quei farabutti (i fascisti)?” E diceva anche: “Credo di aver sempre agito bene nei tuoi confronti e di fare il mio dovere come militante. Sono certa che se tu fossi qui faresti lo stesso. Perché non provi anche tu ad avere un passaporto e uscire fuori dal quell’inferno?” Concludendo con “Un caldo bacio dalla tua cara Linda che ti ama sempre.” A dimostrazione del suo conflitto interiore tra sfera personale e politica.

Nel 1937 anche in Francia diventò oggetto di un decreto di espulsione e riuscì a rimanere in quel paese da clandestina tramite l’aiuto degli antifascisti italiani della cui associazioni era entrata a far parte. Non sappiamo come e dove Linda riuscì a sopravvivere alla bufera scatenata dallo scoppio della seconda guerra mondiale nel 1939. Solo dopo la Liberazione poté rientrare a Piacenza dove il marito era morto nel 1939, a 55 anni , in un dormitorio di mendicità. Con la storia e le esperienze che aveva alle spalle contava di mettersi al servizio delle organizzazioni dei lavoratori che si stavano sviluppando. Ma i giovani dirigenti di quelle organizzazioni non conoscevano Linda, partita da Piacenza 15 anni prima e le rivolsero scarsa attenzione. Con i suoi 52 anni, nelle condizioni in cui versava Piacenza nel secondo dopoguerra, Linda non riuscì ad inserirsi diversamente nel mondo del lavoro locale. Ripartì quindi per la Francia e là si concluse la sua vita. Di lei si sono perse le tracce. Linda merita di uscire dall’’oblio della memoria per il suo coraggio e la sua tenacia. Grazie Linda.

convegno Anpi Giulia Piroli

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