Carcere e detenzione, l’ex garante Palma “Ripensare i tempi delle pene”

“Il tempo delle pene deve avere significato: il valore che ha oggi un anno di privazione della libertà è diverso da quello che aveva nel secolo scorso. Negli ultimi tre mesi nelle carceri italiane c’è stato un caso di suicidio ogni tre giorni: è da ripensare l’intero sistema”. Così Mauro Palma, primo garante nazionale delle persone private della libertà personale dal 2016 a gennaio 2024 e fondatore dell’associazione Antigone, intervenuto nella tarda mattinata di martedì 26 marzo al convegno organizzato da Asp Città di Piacenza insieme al Comune di Piacenza per riflettere sulle condizioni di detenzione, di sovraffollamento, di giustizia riparativa e di futuro.

RIPENSARE IL TEMPO – “I suicidi interrogano non solo il ‘dentro’ ma anche il ‘fuori’ dal carcere. Il tempo deve avere significato – spiega Palma, intervistato dal giornalista di Avvenire Fulvio Fulvi -: il concetto di tempo che esisteva nel Novecento è stato messo in crisi rispetto alla sua fissità. Ma il tempo non è una costante (ce lo dice la fisica), non tutti i tempi sono uguali, ma noi abbiamo l’idea che la misura del tempo sia sempre uguale a sé stessa, da quando la norma viene scritta a quando viene eseguita. Ma sottrarre un anno di tempo a una persona che ha commesso un reato, se nel secolo scorso voleva dire sottrarre una serie di esperienze di vita, oggi, che il tempo è accelerato, significa togliere molte più esperienze. La misura invariabile del tempo come misura rispetto al reato commesso, che resta costante, deve farci riflettere: dobbiamo avere la capacità di modulare il tempo. È un concetto che non c’entra con la certezza, che significa avere regole certe, non lasciare all’arbitrio. Ma quel tempo va modulato in base alla condizione della persona stessa”. “L’attesa la pensiamo come tempo vuoto, invece per una persona più fragile può diventare un tempo dell’ignoto. Ecco perché uccide – dice -. Rispetto alle cosiddette Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, per accogliere detenuti affetti da problemi mentali, ndr), occorre un maggiore coordinamento tra l’esigenza sanitaria e l’esigenza di giustizia. Dobbiamo chiederci di nuovo quanto la macchina del carcere sia una macchina che funziona, anche per le persone che ci lavorano. È troppo influenzata dall’opinione politica del momento, è una sorta di pendolo: più aperta in alcune situazioni e più chiusa in altre. Questo determina un’indecisione, se noi già agissimo su questi due aspetti – maggiore capacità di dare un’indicazione forte, da un’autorità esterna al potere politico e una maggiore rispondenza alle esigenze di carattere sanitario, come quella psichiatrica – avremmo dato una bella raddrizzata”.

I SUICIDI IN CARCERE – “Non possiamo non chiederci perché 27 persone si sono uccise nell’arco di tre mesi. Non per colpa di qualcuno ma evidentemente è un sistema dove si sta male e non si riesce a pensare ad alcun trattamento. Occorre mettere mano a qualcosa che magari non porta consenso politico ma dal punto di vista del dovere etico sì”. Il vero tema è aiutare persone che già sono in una situazione di fragilità a non arrivare in carcere, evitando la commissione del reato. E l’introduzione di nuove misure, rivolte ai giovanissimi non aiuta. “L’adozione, anche per i minori, della custodia cautelare per detenzione di droga di lieve entità, non è una norma pedagogica. Sto dicendo invece che è con la penalizzazione che si gestiscono i fenomeni sociali, invece che con l’educazione e la prevenzione”.

DIRITTI E RISCHI – “Credo che dobbiamo, quando parliamo di diritti, tener presente alcuni aspetti di base – prosegue Palma – e non dimenticare che abbiamo a che fare sempre con delle persone. Nel mio ufficio avevo abolito la dizione ‘il detenuto’, sulla lettere si poteva scrivere solo ‘la persona detenuta’. Il primo punto cardine è avere chiaro che siamo all’interno di un concetto di persona che ha diritto al nome, e quindi alla dignità, e al significato del proprio tempo. La seconda è l’assoluta intangibilità fisica e psichica di una persona: in carcere c’è il rischio di destrutturare alcune connotazioni del proprio sé. La prima è quella del ‘sé adulto’, spesso il carcere opera una neoinfantilizzazione della persona, che non dà neanche la possibilità di sentirsi responsabile di ciò che si è fatto, e quando si esce di gestire la propria vita. La seconda è il ‘sé corporeo’: in carcere ci si fa male, si va dal medico sperando che si stia male. Il rapporto con il proprio corpo è spesso negativo. Ecco che l’attività fisica, lo sport, il contatto non possono essere ristretti agli esercizi con le bottiglie di plastica o all’intrattenimento, bisognerebbe lavorare sul recupero del sé corporeo. Il terzo aspetto è il ‘sé culturale’: ognuno di noi è un soggetto con una propria definizione culturale, il carcere deve dare la possibilità di esprimere la propria cultura. Il quarto e ultimo è il ‘sé relazionale’, poiché anche nella Costituzione la persona è definita nella sua relazionalità. Ricostruire le relazioni all’interno del carcere è un modo per non distruggere quel sé. L’obiettivo di base è quello di ridare un senso a tutte quelle 56mila persone che a breve tempo riavremo nella nostra collettività”.

LA SPERANZA – Alla domanda di Fulvi se sia possibile una speranza per il detenuto e per la società, Mauro Palma specifica che “la speranza deve essere sostenuta con politiche attive, ovvero devono esistere norme che diano il limite e allo stesso tempo gli strumenti per una possibilità. Nelle carceri esistono tante esperienze positive, la grande incapacità (italiana) spesso è renderle sistematiche”.

Convegno carcere mauro palma

IL PROGRAMMA – La giornata di studi, aperta a tutti gli interessati, per presentare i contributi di esperti e di testimoni della realtà del carcere di Piacenza, prosegue nel pomeriggio di martedì 26 marzo all’Open Space di via Scalabrini 19. La mattinata è stata aperta, dopo i saluti delle autorità, dall’introduzione a cura di Fulvio Fulvi. A seguire, la tematica dal titolo “Il senso, cioè come passare dagli slogan alle storie concrete?” trattata da Mauro Pescio (podcast “Io ero il milanese”), Mino Manni (Teatro in carcere) e Carla Chiappini (Autobiografia e genitorialità). Dopo la pausa caffè ha preso la parola Mauro Palma che, intervistato da Fulvio Fulvi, ha discorso sul tema “Di cosa parliamo quando parliamo di diritti in carcere?”.

Dopo la pausa pranzo, alle 14 Fulvio Fulvi introdurrà la tematica “Il quotidiano (il dentro e il fuori): ruoli e parole chiave”, su cui parleranno successivamente Maria Teresa Filippone, comandante della Casa circondariale di Piacenza (la custodia), Romina Cattivelli, già presidente della Camera penale e responsabile locale per l’osservatorio carceri Emilia-Romagna (la condanna), Simona Giuppi, psichiatra del dipartimento Salute mentale e dipendenze patologiche Ausl di Piacenza (la salute), Fabrizio Ramacci, presidente della cooperativa sociale “L’Orto Botanico” (il lavoro), Teresa Andena, dirigente scolastica del Campus Alimentare Raineri-Marcora di Piacenza (la scuola) e Raffaella Fontanesi, responsabile CSV Emilia – Centro Servizi Volontariato Emilia sede di Piacenza (il tempo libero). Alle 15.45 sul tema “Quale carcere? Quale territorio? Come passare dalle teorie agli interventi concreti a Piacenza?” Giampaolo Nuvolati, professore ordinario di Sociologia dell’Ambiente e del Territorio all’Università degli Studi di Milano Bicocca, dialogherà con Maria Gabriella Lusi, direttrice della Casa Circondariale di Piacenza, e Nicoletta Corvi, presidente del Clepa – Comitato Locale Esecuzione Penale Adulti di Piacenza. Infine, l’ultima tematica trattata sarà quella de “Le prospettive ovvero il futuro, prossimo e anteriore”: ne parlerà dalle 16.20 Pietro Buffa, direttore generale della formazione dell’amministrazione penitenziaria al Ministero della Giustizia. La chiusura dei lavori è prevista per le 16.45.

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