Da slegare e da curare: la sfida di Basaglia nei Centri Salute Mentale L’INTERVISTA

Io sottoscritta trovandomi nelle mie piene facoltà mentali, desidero deporre il mio testamento per ciò che riguarda il mio funerale. Il mio corpo dovrà essere deposto in un sacco di plastica al posto della bara, per carro funebre voglio una carriola da muratori. Il sacco contenente il mio corpo dovrà essere sepolto nella terra. Sopra alla mia fossa voglio una grande croce meglio di ferro perchè almeno non marcisce. Al mio funerale voglio un corteo di puttane che portino al guinzaglio un corteo di cani, anche randagi e soprattutto bastardini. Tutto questo dovrà essere accompagnato da un’allegra orchestra al suono di mazurka. Se il parroco vorrà benedire tutto questo, lo ringrazio. Se non lo farà chiederò la benedizione di mio padre celeste. Tengo a precisare che il mio desiderio è di essere sepolta nel cimitero di Piacenza, città dove è nato mio figlio.

“E’ il testamento di A., una donna rinchiusa per oltre 15 anni in manicomio e separata del proprio figlio, lo ha voluto scrivere prima di morire, credo che siano parole molto importanti e rivelatrici”. Il dottor Giovanni Smerieri le legge da alcuni fogli fotocopiati di un manoscritto. “Parole che sono la dimostrazione – aggiunge – di come si possa vivere gran parte della propria esistenza in una dimensione tragica come quella della psicosi, all’interno di un mondo che di fatto ti ha abbandonato completamente. Un mondo perduto”.

Dopo la prima parte dedicata al mondo parallelo e “spietato” del manicomio, con Smerieri, in passato responsabile del Centro di salute mentale di Fiorenzuola e Direttore dell’Unità di Riabilitazione Psichiatrica dell’Ausl, affrontiamo la sfida che sia aprì con la riforma di Franco Basaglia del ’78: dimostrare che un altro modello di cura era possibile. Alla fine degli anni ’70 le cose cominciarono a mutare e anche il mondo circostante, la città se ne accorse. “A quel tempo arrivarono molte persone motivate – ricorda Smerieri – alla nostra realtà psichiatrica per darci il loro aiuto. Ci furono i giocatori di rugby, ma anche artisti e pittori. Tutto il clan dei pittori piacentini come Armodio, Foppiani, Bertè, dipinsero un grande murales, un treno sul muro della palazzina del reparto femminile dell’ospedale psichiatrico, che venne battezzato il ‘treno della libertà’ coi ritratti di diversi personaggi della storia del pensiero”.

LA RAGAZZA “SLEGATA” DOPO DUE ANNI – “C’è un episodio significativo nel 1980 legato a un giocatore di rugby, – continua – uno dei tanti volontari che furono tra i protagonisti di quella liberazione. Ricordo che si prese cura di una ragazza nel padiglione femminile, che era vincolata da due anni, attaccata al letto. Veniva chiamata la “lupa”. Allora si decise insieme ad altri di provare a slegarla, si fecero diversi tentativi per giorni e giorni. Era affetta da una celebropatia ed aveva avuto in passato reazioni violente. In conclusione, nel giro di due o tre settimane il volontario riuscì a condurla a mangiare con tutti gli altri, dopo due anni di vincolo. Le infermiere anche in quel caso restarono incredule. Quella fu una delle tante evidenze che riscontrammo in quel periodo. Era la dimostrazione che non era necessario legare e vincolare le persone. Legare mani e piedi era la soluzione in mancanza di alternative terapeutiche, e soprattutto di uno spirito curante”.

ASCOLTO COME POSIZIONE SCIENTIFICA – “Per questo il sentimento umano nei confronti del malato – fa notare – deve essere ben pensato, secondo la modalità profonda dell’ascolto, altrimenti anche l’amore può uccidere uno psicotico. L’ascolto allora non è solo una posizione etica e culturale, ma anche profondamente scientifica, perchè attraverso l’ascolto, attraverso l’immedesimazione, che significa mettere l’altro con le sue paure dentro di sè, è possibile restituire qualcosa. Proprio come fecero i grandi scienziati che si iniettarono i vaccini che avevano scoperto per provarli prima su di sè. Nel dialogo c’è la capacità di mettersi dentro l’altro. Questa è stata la grande apertura di Basaglia, la dimostrazione che un intervento forte e articolato, con più risorse di cura, nella fase acuta della malattia mentale, cambia radicalmente la prospettiva di guarigione. I ricoveri sono un’eccezione, le terapie una necessità a bassi dosaggi e dopo un po’ possono interrompersi, e all’inizio la cura deve essere un concorso di tante persone, di tante figure professionali diverse”.

Giovanni Smerieri

METTERSI IN ASCOLTO DEI MALATI – “Basaglia ebbe il coraggio e l’intelligenza umana – le parole di Smerieri si fanno più meditate – oltre che quella scientifica, di mettersi in ascolto. Si piazzò lì, insieme ad altri medici, e rimase in ascolto per giorni e giorni. Quando le persone venivano slegate non restava in ufficio di direzione dell’ospedale ad attendere gli sviluppi, al contrario lui era lì, una presenza costante, giorni dopo giorni. Lo imparai dal dottor Stefano Mistura, che veniva da quell’esperienza, noi medici stavamo coi pazienti ore dopo ore e se alle dieci di sera chiamavano, si andava. L’ascolto fino in fondo e il rispetto dell’altro erano elementi fondamentali. Il nostro presupposto era questo: al di là della condizione in cui la psicopatologia metteva quel paziente, non solo in senso morale, ma anche in senso concreto, la persona esisteva ancora e si batteva contro la malattia. Ascoltare significa tentare di entrare nel registro mentale dell’altro, per capire come viva la propria condizione. Dentro quel mondo l’altro può mettersi in contatto con noi. Soltanto nell’ascolto profondo e nel mettersi nella sfera dell’altro diventa possibile conoscere il modo per far tornare la fiducia nell’umano, in altri termini è la fiducia nella relazione terapeutica da cui nasce la possibilità della cura”.

COME FREUD – “Quello che ha fatto Basaglia è stato straordinario – sottolinea Smerieri – ed è per certi versi paragonabile al percorso di Freud a fine dell’Ottocento. Anche Freud, cacciato dall’università perchè ebreo, iniziò ad ascoltare le persone che avevano disturbi psichici per cinque giorni alla settimana. Non c’era allora altro medico che sarebbe rimasto ad ascoltare per così tanto tempo le narrazioni dei propri pazienti. Lo stare lì, lo stare dentro la narrazione dei pazienti ha significato avvicinarsi come mai prima alla conoscenza della sofferenza umana. E fu così con Basaglia, che attraverso gli incontri e la relazione umana e terapeutica si aprì lo scenario del possibile. Possibile nonostante la cronicità, nonostante il deficit cognitivo”.

UNA RIFORMA PER GRADI – “La riforma di Basaglia si realizzò per gradi, – spiega Smerieri – e negli anni ’80 anche a Piacenza la grande sfida ebbe il nome di Centro di Salute Mentale. La sfida era dimostrare nella pratica che il modello di cura dell’ospedale psichiatrico era profondamente sbagliato. La cura aveva bisogno invece di spazi che non erano quelli dell’isolamento, nei quali le relazioni umane erano ridotte al minimo. Era necessario fare il contrario, perchè anche nelle situazioni che esprimono la paura dell’umano, se ci si avvicina in un contesto ambientale favorevole, è possibile instaurare una relazione, che è il punto di partenza della cura”.

I MATTI “LIBERI”: COSA SUCCEDERA’? – “La domanda che ricorreva allora – ragiona Smerieri – era la seguente, che cosa accade in una comunità di circa 80mila persone (come il bacino di competenza sanitaria della Val D’Arda ndr) se i matti sono liberi?” I medici di famiglia come potranno fare per occuparsi di persone delle quali si era sempre occupata soltanto la polizia? Il problema era far sì che l’ipotesi rivoluzionaria di Basaglia potesse essere applicata nella realtà. Lo sforzo degli anni successivi, per tutti gli anni ’80 e ’90 e fino ai duemila è stato questo: come è possibile accompagnare le persone colpite dalle crisi psicotiche, quelle che non desiderano essere curate, che sono estranee alla terapia? E’ possibile che finalmente siano i sanitari i veri protagonisti di questo percorso? La risposta che ci è arrivata dalla realtà delle cose è sì. E’ possibile. Nel corso dei 30 anni successivi alla riforma, tutti i pazienti afferenti alla comunità della Val d’Arda dove ho operato furono accolti e accompagnati da infermieri, medici, educatori, assistenti sociali e psicologi. Nelle situazioni più delicate anche i carabinieri rientravano nel gruppo terapeutico, con un ruolo di supporto. Nel nuovo clima generale anche le forze dell’ordine hanno subito una trasformazione, acquisendo un nuova prospettiva”.

Foto Cravedi

SUPERARE L’OSPEDALE – “L’ospedalizzazione, tranne che per i casi acuti, fu superata, – racconta Smerieri – le degenze diventarono relativamente brevi e le terapie vennero vissute dentro spazi nuovi che via via si inventarono, come il centro diurno. Poi arrivano a fine anni ’80 le prime piccole comunità terapeutiche aperte, da quindici posti circa, fino all’esperienza del condominio solidale. Un modello che aveva avuto una significativa anticipazione negli anni ’70 coi primi appartamenti messi a disposizione dalla Provincia con piccoli gruppi di pazienti con assistenti di base. Furono progetti positivi e per questo poi si allargarono progressivamente. Nel condominio solidale che venne creato una ventina di anni fa in via Scalabrini, c’erano monolocali con persone che pagavano un piccolo affitto e si autogestivano, ma allo stesso tempo c’erano minori o altre persone senza domicilio, con un assistente sociale, la mensa, più altri servizi. E’ stata la prima struttura di questo tipo e da lì sono nate altre realtà simili, dentro questo spirito è nata ad esempio la comunità e l’attività lavorativa de ‘I Perinelli’ con l’azienda agricola e vitivinicola, e sulla scia dello spirito basagliano perseguito fino alla fine”.

BIOLOGIA E SOCIETA’ – “Una delle acquisizioni di quegli anni – precisa Smerieri – è che l’ipotesi della malattia mentale e della sua natura abbia che vedere sia con una componente biologica, che di natura ambientale. Riguarda pertanto le relazioni familiari, ma anche quelle più intime come l’esperienza dell’amore. L’amore in particolare costituisce la sfida esistenziale più delicata da cui nasce la sofferenza mentale nelle sue diverse forme, perchè nella sfida del rapporto amoroso mettiamo in campo la nostra unicità, i nostri desideri profondamente umani, ma anche la nostra dimensione animale. Il cervello infatti, quando ci innamoriamo, attiva un programma biologico, con regole che ci spingono verso l’altro. Se non siamo ben centrati su di noi, con un sè forte e coerente, si generano i grandi disturbi della mente, le grandi crisi depressive o dissociative, le crisi comportamentali e di personalità”.

L’ISTITUZIONE PUO’ DISTRUGGERE L’UMANO – Al termine dell’intervista si impone in modo ineludibile l’interrogativo finale, come è stato possibile che si producesse quel mondo “prima” di Basaglia, fondato sulla segregazione e sulla negazione dell’umanità? “Dobbiamo renderci conto che l’istituzione – conclude Smerieri – se non viene costantemente animata dallo spirito umano, ci distrugge. Distrugge anche persone che hanno voglia di stare bene dentro le istituzioni. Tanti studi ci dicono che le istituzioni hanno un meccanismo spietato che trascende anche le persone, perchè costringe a un ordine comportamentale che fa sparire l’individuo. Questo accade in tutte le istituzioni, non dobbiamo dimenticarlo”. (2- fine)

Mauro Ferri