Galimberti “La bellezza è inquietante, l’amore mette in contatto razionalità e follia”

“Gli amanti che passano la vita insieme hanno cose da dire che non riescono a dire. C’è un’insufficienza del linguaggio che non riesce ad essere all’altezza di quello che gli amanti provano. L’amore è un evento di follia”. È sul rapporto tra ragione e follia che si è basata la “lezione” di Umberto Galimberti di fronte a circa settecento persone nel cortile di Palazzo Farnese, a Piacenza, nella serata di 29 giugno inserita nel cartellone di Piacenza SummerCult. Un “one man show” con il filosofo ottantaduenne che è rimasto in piedi per quasi un’ora e mezza, senza appunti, a parlare di filosofia e psicanalisi. “I Greci attribuivano la follia al mondo degli dèi; anche gli uomini vi abitavano, ma poi ne sono usciti. La ragione però arrivò dopo, fu Platone a insegnarcela. Noi parliamo e pensiamo come Platone ci ha insegnato, in modo logico. Ma prima non era così: Omero, ad esempio, parlava in modo analogico, per similitudini”. Il filosofo è partito dal principio di non contraddizione, rispettato nel mondo della razionalità ma non in quello della follia. “Basta che andiamo a dormire – dice – e abbiamo un collasso della coscienza. Poi arriva il sogno, che è l’inizio della follia: posso essere spettatore e attore contemporaneamente, una cosa che per il principio di contraddizione non è possibile. Nel sogno non c’è il principio di casualità, perché l’effetto può diventare la causa, e non valgono le categorie dello spazio e del tempo: un sogno può cominciare a New York e finire nell’Impero romano”.

Umberto Galimberti a Palazzo Farnese

Gli dèi, ricorda Galimberti, vivono “al di qua” del mondo razionale. “Zeus, re degli dèi, è anche tuono, fulmine, pioggia. E anche la religione cristiana non è esente da questa irrazionalità: Dio, per provare la fedeltà di Abramo, gli chiede di sacrificare il figlio Isacco ma poi l’angelo gli ferma il braccio. Kierkegaard, filosofo cristiano, riflette: o Dio è onnisciente, e allora non ha bisogno di testare la fedeltà di Abramo, oppure non lo è, ma se non lo è non è Dio. Ma così ragionano gli umani, e Dio non è umano, non segue le regole della ragione”. La follia però, seppur divina, non è inaccessibile agli umani. “Gli amanti che passano la vita insieme – afferma il filosofo – non sanno cosa vogliono gli uni dagli altri. Non è certo per i piaceri carnali che si sta insieme tanti anni, è evidente che gli amanti hanno cose da dire che non riescono a dire. C’è una insufficienza del linguaggio che non riesce a essere all’altezza di quello che gli amanti provano. L’amore è un evento di follia“. Non solo l’amore, ma anche l’arte, per prodursi, ha bisogno di follia. Una follia che però viene dal “divino” che è dentro l’artista. “Per creare qualcosa non basta la ragione, bisogna scendere nella propria follia e così cominciare il fenomeno dell’ispirazione in uno stato di entusiasmo. È necessario cercare un dio dentro di sé, è lui l’autore. È la follia che fa creare questa opera d’arte. Tutti scriviamo poesie, ma solo chi entra nella dimensione folle e riesce a esprimere le metafore della dimensione umana riesce a produrre opere d’arte”. L’opera d’arte, dunque, è frutto della follia. “Stendhal ebbe una crisi davanti a un quadro degli Uffizi, da lì quella sensazione si scoprì essere una sindrome. Molti di noi invece guardano i quadri e poi escono dicendo ‘che bello’. La bellezza è inquietante, ci mette in crisi, causa sconvolgimenti interiori. La parola ‘bello’ andrebbe eliminata. Solo chi ha una crisi di fronte a un’opera d’arte entra in contatto con quell’opera d’arte”.

Umberto Galimberti a Palazzo Farnese

Aiutandosi con Platone, Galimberti ha poi riflettuto sul desiderio, componente immancabile dell’amore, che non può esistere senza una mancanza. “Si desidera quello che non si ha, quello che si ha si gode. Perciò si dice che in amore vince chi fugge, perché crea una mancanza e così aumenta il desiderio”. Per meglio spiegare il significato della parola “desiderio”, Galimberti si è affidato a un vecchio aneddoto – la cui veridicità è controversa – che riguarda i “desiderantes”, ovvero i soldati che, secondo Cesare, passavano la notte sotto le stelle (sidera) ad aspettare i commilitoni che dovevano rientrare. Da qui il filosofo riconduce l’etimologia di “desiderio” appunto alla mancanza dei commilitoni. L’amore, dunque, “sta tra la parte razionale e quella folle e serve a tradurre le parole degli uomini agli dèi” e allo stesso tempo a “interpretare il linguaggio folle degli dèi per gli umani”. E quindi l’amore “non è un rapporto tra me e te – dice Galimberti – ma tra me e la mia parte irrazionale, possibile grazie a te che me lo permetti”.

Umberto Galimberti a Palazzo Farnese

Spostando il focus, Galimberti parla della crudeltà della natura che “ha bisogno di uccidere perché ci sia un ricambio”. “La donna che decide di mettere al mondo un figlio – esemplifica – deve assistere alla deformazione del proprio corpo, alla soppressione del tempo e del sonno, alla sospensione (o alla perdita) del lavoro e quindi anche della socializzazione. È un disastro dal punto di vista dell’io, ma è un guadagno secco per la specie. La natura è caratterizzata da una crudeltà innocente, della sorte degli individui non le interessa”. Citando Goethe, Galimberti arriva alla conclusione che “la natura non ha né fedeltà né memoria”. “Freud elogia Schopenhauer attribuendogli l’invenzione della psicanalisi, perché ha iniziato a capire che l’uomo ha un conflitto tra il suo io e la specie. Questo Freud lo colloca nell’inconscio, in cui c’è sessualità e aggressività. Nel nostro inconscio c’è la nostra controparte sessuale. Quando un altro abitante della nostra psiche prende il sopravvento si entra nella pazzia. In ogni uomo c’è una parte femminile e viceversa. Ciascuno di noi è maschio e femmina, lo dice la psicologia e la biologia”.

“Per capire cos’è una donna e cosa pensa – riflette Galimberti – l’uomo deve parlare con la sua parte femminile. E viceversa. La subordinazione funziona con la complicità dei subordinati. Siamo tutti quanti fluidi, ma serve alla società avere maschi e femmine. Nessuno di noi è confinato in un sesso ma bisognerebbe che l’uomo parlasse con la sua parte femminile per capire cosa pensa una donna. I rapporti matrimoniali funzionano solo se l’altro è percepito come un ‘altro da sé e non qualcosa di proprio. L’amore è questo lavoro di capacità di comprensione”.

Umberto Galimberti a Palazzo Farnese

L’ultima considerazione che Galimberti lascia al pubblico di Palazzo Farnese riguarda l’identità che – sostiene – è un “risultato sociale, frutto dei riconoscimenti misconoscimenti avuti nella nostra vita. Sono gli altri che ce la danno, non siamo noi ad averla. Dalla relazione nasce la nostra identità”. Nella storia dell’umanità, “i Greci mettevano al primo posto la società e poi l’individuo; poi arrivò il cristianesimo e disse esattamente l’opposto. Agostino sosteneva che lo Stato non dovesse preoccuparsi del bene della collettività, perché per quello c’era già Dio. Lo Stato, secondo il santo, ha il compito di togliere gli impedimenti che si frappongono fra l’individuo e la salvezza della propria anima”. Dal Simposio di Platone e dalle commedie di Aristofane arriva l’ultimo esempio di Galimberti: “L’uomo, tagliato in due da Dio, si può ricomporre solo nell’amplesso sessuale. In quel momento torna l’uomo intero con due teste, quattro braccia e quattro gambe. Torna l’antica unità di quello che era l’uomo originario. È la relazione che giustifica la nostra identità“. (fp)

Umberto Galimberti a Palazzo Farnese

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