Un “manifesto” per l’islam italiano “La violenza non è legata a una religione o al colore della pelle”

Islam e islamofobia, pregiudizi e scelte. È una storia che dura da dodici secoli quella dell’islam in Italia. Più che mai oggi la religione è al centro del dibattito politico e pubblico: c’è chi alza barricate a difesa della propria confessione, c’è chi – spesso le stesse persone – punta il dito verso una potenziale “minaccia”. Motivi, fra i tanti, che hanno reso necessario un manifesto per definire l’islam e la sua presenza – il credo e chi lo professa – in Italia. A scriverlo è Francesca Bocca-Aldaqre, italiana e islamica con un PhD in neuroscienze sistemiche, direttrice dell’Istituto di studi islamici Averroè di Piacenza, docente (nonché cofondatrice) dell’Istituto islamico di studi avanzati e Ceo di Shams – Studio di psicologia islamica. Il libro, uscito nel 2024 per i tipi di Mimesis, sarà presentato sabato 15 giugno alle 18 nella sala conferenze della Moschea di Piacenza, in via Caorsana. Abbiamo chiesto a Francesca Bocca-Aldaqre di anticiparci alcuni aspetti chiave.

Partiamo dall’attualità. È in libreria con “Manifesto dell’islam italiano”. Cos’è l’islam italiano?
È una risposta non facile. In “Manifesto”, lo definisco come l’insieme dei musulmani che vivono, lavorano, studiano, pregano in Italia, volutamente allontanandomi dalla dicotomia dettata dalla cittadinanza, e proponendo una comunità più inclusiva. L’islam italiano è una storia molto lunga, ma spesso interrotta, che nasce in Sicilia nell’827 dopo Cristo, continua attraverso episodi brevi come quello dell’insediamento di Lucera, dell’emirato di Bari, fino alla presenza costante di mercanti turchi a Venezia, e che oggi – circa dagli anni ’70 – è diventata una realtà presente in tutta Italia.

In Germania, dove ha trascorso diversi anni per i suoi studi, ha deciso di convertirsi all’islam. Come l’ha “conquistata” questa religione?
Sono sempre stata molto legata alla cultura e alla letteratura tedesca. Uno dei primi punti che mi hanno incuriosita all’islam è stato leggere il Divano Occidentale-Orientale di Goethe, in cui il più grande poeta tedesco canta la grandezza del mondo musulmano, e delle culture araba e persiana. Un altro elemento che mi aveva incuriosita è stato trovare, poco lontano dalla mia università, una stele dedicata a Muhammad Iqbal, poeta nazionale del Pakistan, anche lui studente nella stessa università, che ha scritto un libro ispirato alla Divina Commedia – argomento di attualità in questi giorni – dove però all’Inferno… non c’è nessuno! Insomma, ho iniziato a scardinare i pregiudizi che avevo contro questa religione e piano piano, imparando la lingua araba, studiando il Corano e le altre fonti dell’Islam, ho trovato che mi corrispondeva.

Francesca Bocca-Aldaqre

Tempo dopo ha scelto di indossare l’hijab. Un’osservazione che qualcuno potrebbe fare è che essere islamica, per una donna, in Europa è “facile”, mentre in alcuni Paesi arabi l’essere donna comporta una “sottomissione” (la parola “Islam” viene spesso tradotta così) non solo a Dio “Allah” ma anche all’uomo-marito, con tutte le implicazioni che ne conseguono. Ci aiuta a chiarire qual è il ruolo della donna secondo l’islam, in Italia e in altre zone del mondo?
Grazie per questa domanda, che mi permette di affrontare molti punti importanti con una sola risposta. Partiamo dalla definizione di Islam: per decenni l’uso della parola “sottomissione” per tradurre “Islam” ha portato solo danni alla comunità musulmana, ed è utilizzato dagli islamofobi per portare avanti una connotazione guerriera e conflittuale dell’Islam. Non condivido assolutamente questa traduzione, e scelgo di appoggiarmi ancora una volta al grande Goethe che, nelle sue lettere, definiva Islam come “abbandono fiducioso a Dio”. Oltre che rispettare maggiormente l’etimologia del termine – tradurre una parola araba in tutte le sue sfumature richiede spesso diverse parole in italiano – è una traduzione bellissima, perché tronca alla radice l’idea che si possa essere “forzatamente” musulmani; non ci si può abbandonare a Dio perché costretti, è un controsenso. Un inciso sempre linguistico: per noi “islamiche” sono le cose, “musulmane” le persone. La parola “musulmano” infatti deriva dall’arabo “muslim” che significa “colui che si trova in uno stato di abbandono fiducioso a Dio”. Ecco perché per noi è un termine fondamentale.

Passando al punto del rapporto tra Dio (“Allah” è la parola araba usata anche da cristiani ed ebrei di madrelingua araba per riferirsi allo stesso Dio), per un musulmano, fare un’analogia fra il rapporto tra il credente e Dio e il credente e il suo partner è decisamente eresia. Tutti sanno che l’Islam è una religione monoteista, ma spesso in Italia non si ha ben presente quanto monoteista sia. Ogni gesto religioso, ogni intenzione di azione è da orientare esclusivamente verso Dio; farlo con costanza ci porta a interiorizzare alcuni atteggiamenti di fondo, che si rispecchiano nei Suoi Novantanove Nomi, i cui primi sono il Compassionevole e il Misericordioso. E, avendo una conoscenza diretta di diversi paesi a maggioranza musulmana (c’è una differenza tra arabo e musulmano), posso garantire che l’immagine della povera donna maltrattata dal partner non è la regola. Anche lì, come qui, le relazioni abusanti vivono in ambienti di disagio socioeconomico, scarsa istruzione, e si intersecano con problemi di salute mentale e dipendenze. La violenza domestica non è legata a una religione o al colore della pelle, e anche in Italia dobbiamo fare enormi passi in avanti per risolvere questo problema.

Ecco, questo è un minimo di background per uscire dall’immagine turpe, grigia e minacciosa dell’Islam. Aggiungerei anche che essere donna musulmana in Italia non è facile per niente. L’islamofobia crescente provoca incidenti sempre più frequenti in cui donne visibilmente musulmane subiscono attacchi verbali e a volte anche fisici intollerabili in un Paese che ha tra i suoi principi la libertà di culto. Ci sono anche molte donne musulmane in Italia che, pur volendo indossare il velo, non possono farlo. Non dimentichiamo le discriminazioni sul luogo di lavoro. In “Manifesto dell’Islam italiano” tocco moltissimi di questi punti, rimando alla lettura del libro per chi volesse trovare un approfondimento specialmente sul velo.

L’istituto di studi islamici Averroè, che lei dirige a Piacenza, permette a tanti – bambini e adulti – di approfondire la conoscenza della religione islamica. Gli studenti sono per la maggior parte musulmani. Crede che un po’ di conoscenza in più potrebbe aiutare anche i non islamici, in particolar modo gli italiani, ad abbattere i pregiudizi e a rapportarsi meglio verso una diversa cultura?
Sicuramente. Anche noi in moschea sentiamo l’esigenza di comunicare la nostra presenza a chi sta fuori. Un’iniziativa che stiamo portando avanti da qualche anno in questo senso è proporre alle scuole piacentine (specialmente superiori) di fare una visita guidata della moschea. Offriamo anche – sempre gratuitamente – di tenere lezioni nelle classi come ospiti su vari temi che riguardano la cultura islamica – dall’arte alla matematica, dalla moda alle lingue – e per ora le nostre esperienze sono state bellissime. Proprio riguardo questo tema, cioè coinvolgere i non musulmani nella vita della comunità musulmana, abbiamo deciso di tenere la prima presentazione piacentina di “Manifesto dell’Islam italiano” proprio nella sala conferenze della moschea.

_Francesco Petronzio

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