Addio a Gianni Schicchi, “feticcio” di un cinema in rivolta IL RICORDO

E’ morto a 84 anni Gianni Schicchi, attore feticcio bobbiese e amico di Marco Bellocchio. I funerali sono in programma nella mattinata (alle 10,30) di giovedì 10 novembre a Bobbio in San Colombano. Ecco un ricordo che Mauro Molinaroli ha scritto per la sua rubrica “La Nave in bottiglia”.

Gianni Schicchi, non ci vedevamo da tempo, con la sua faccia da cinema che riconosceresti tra mille. Mi ha sempre ispirato simpatia e tenerezza soprattutto quando mi assaliva con la sua voglia infinita di spiegare un mondo, che poi era quello di Marco Bellocchio, per il quale Gianni ha rivestito un ruolo importante, di primo piano. Ci siamo frequentati per diversi anni. I ricordi si tingono d’azzurro, il colore della lontananza e Schicchi appartiene alla memoria, mia e di tanti. Quest’uomo che di cognome faceva Gabrieli (Schicchi è il soprannome che deriva dalla sua grande passione per l’opera lirica), il cui padre è morto quando aveva soltanto sei anni (“C’era la guerra, me lo ammazzarono davanti agli occhi, non dimenticherò più quell’attimo”) sapeva essere sensibile e amabile. Raccontava storie lontane e aneddoti di ieri legati all’amico Marco. I capelli bianchi e increspati dal tempo e dal vento di tramontana che ogni tanto a Bobbio spira fortissimo, quasi a farti capire che di là del fiume è Liguria. Di qua è Emilia o Lombardia, dipende da come ti senti dentro. Sapeva essere coinvolgente, ti travolgeva e poi ti avvolgeva. Scorrevano le riprese di Sorelle Mai mentre Schicchi, uomo in frac, si lasciava morire nelle acque del Trebbia. E ancora: “Vincere”, “Sangue del mio sangue”, “Buongiorno, notte”, “Fai bei sogni”.

Parlare e conversare con Gianni ha significato per diversi anni ripercorrere i luoghi dei film nati dai corsi di FareCinema, ma soprattutto i retroscena de “I pugni in tasca”; un esercizio di memoria per entrambi: la curva del Castelletto è ancora lì e fa un certo effetto vedere il fiume Trebbia che si apre in due mentre dall’alto viene fuori, incastonato tra il verde e le rocce, l’antico borgo medievale di Brugnello. Un paesaggio che inquieta e affascina. E poi il cimitero, l’avello della famiglia Bellocchio, il borgo antico, la casa materna che incroci andando verso Passo Penice. Luoghi, storie, memoria, vita. Un film, “I pugni in tasca” in cui Gianni interpretava il ruolo del venditore di cincillà, che era uno spezzone di vita, il percorso una giovinezza inventata, di un’adolescenza inquieta, come tutte. Violata e poi svelata.

Quando scrissi “Il cinema in rivolta”, dedicato proprio a Marco Bellocchio e a “I pugni in tasca”, conobbi grazie a lui i luoghi più misteriosi di Bobbio, mi guidò alla ricerca della Valtrebbia perduta e registi come Sergio Rubini, Franco Piavoli e Daniele Ciprì conobbero grazie a Gianni quei borghi che sanno di tempo andato. Insieme a Gianni ho scoperto i riti di famiglie agiate, borghesi, i cui segni di decadenza erano però irreversibili. I pranzi della domenica nei “Pugni in tasca” sono uno sberleffo continuo; come la lettura del giornale alla madre cieca, alla quale Ale si presta con condiscendenza e cinismo tra ironia fredda e corrosiva. Bobbio nei “Pugni” è una morsa; non ti puoi liberare: “Quando Ale getta la madre nel burrone – diceva Schicchi – la scena viene condotta con leggerezza, sempre, quasi si trattasse di un gioco. Quella carezza sulla spalla è una spinta devastante e inopportuna; hai la certezza dell’incesto tra Ale e Giulia quando il gatto esce dalla stanza della casa dell’antica contrada. Il rapporto che Marco ha con me è sincero, profondo e vero. Ci conosciamo da una vita. Che so, anni Cinquanta. Ricordo il profumo dell’erba, i bagni al fiume quando eravamo ragazzini e le biciclette che ci lasciava a piedi quando la camera d’aria usciva dal copertone. E poi Bobbio e le suggestioni del paese. Io figlio di gente alla buona, con scarse o nulle possibilità economiche e Marco che arrivava in estate insieme ai genitori e ai fratelli. Famiglia alto borghese e ottime possibilità”. Proprio come la famiglia agiata di provincia che viene fuori da “I pugni in tasca”: “Quel film è ancora dentro di me – diceva – e credo che abbia segnato l’intera comunità di Bobbio perché quei giorni freddi con la neve per strada sono ancora fissi nella mia mente. Marco aveva in testa una cosa strana, un film che era come una locomotiva lanciata contro il perbenismo, contro certi modi di fare della borghesia. Gli spazi chiusi, angoscianti dove vivono i componenti di una famiglia senza pace. Una stessa famiglia malsana e autodistruttrice”.

Mi disse: “Andammo a Locarno. C’erano Marco, il sottoscritto, Enzo Doria, Gisella Longo, Marino Masé, Paola Pitagora, Celestina e Camillo Bellocchio, Ugo Novello, Alberto Marrana, Lou Castel, Cocco Molinari e Giacomo Ciavatta. Il film fu relegato all’ultimo giorno. In sala quasi tutti se n’erano andati. Tutti tranne un critico inglese che esaltò il lavoro di Bellocchio. Ne scrisse benissimo. E Italo Pietra allora direttore de “Il Giorno” telefonò al caposervizio degli spettacoli chiedendoli perché nessuno del suo giornale aveva intuito ciò che il film rappresentava”. Penso oggi a quando Gianni mi portò a casa sua e tirò fuori una vecchia copia ingiallita, la mostrò con soddisfazione. E ciò che il critico Pietrino Bianchi scrisse: “Cupo, arido, percorso da una vena di lucida alienazione, “I pugni in tasca” è il film di un regista che non ha freddo agli occhi e che ama le vie inconsuete del cinema. Viene da sorridere pensando alla rivoluzione al marzapane proposta da “Chi lavora è perduto”. Ne “I pugni in tasca” si ritrovano, in un contesto narrativo senza remissioni, i temi e i veleni dei surrealisti, e il fatale “changer la vie” da cui deriva gran parte della cultura moderna. Per le sue origini culturali, il regista ha raggiunto il grido dei postromantici non attraverso Rimbaud e Lautréamont; ma, più caratteristicamente, seguendo i canali del grande pessimismo cristiano, da Tertulliano a Sant’Agostino. L’organica fragilità dell’umana natura è sempre presente al Bellocchio”.

Gianni, è e rimarrà un feticcio che sa di vita, di magia, una maschera di strada che ricorda certe notti in cui la luna confonde, in Valtrebbia, a Bobbio, ricordi e desideri, tempo andato e gioventù, maturità e nostalgia. Bobbio, una borgata che ho adorato e che oggi più che mai mi riporta a te, amico mio perché se è vero che il tempo emigra è altrettanto vero che ci siamo voluti bene e stimati. Eri al mio matrimonio e indossavi il frac (sembravi tu lo sposo), dopo il sì ti lasciasti andare in un’azzardata lettura dantesca; nelle sere del Bobbio Filmfestival si cenava insieme dalla Cele e il vino muoveva ricordi, storie e quando presentammo in Santa Chiara il libro che ti dedicai, eri commosso, entusiasta, quasi felice. Già, addio Gianni, salut. Mi consola l’amicizia con Luca, tuo figlio. Non è poco.

Mauro Molinaroli

(nella foto Gianni Schicchi con Mauro Molinaroli a Bobbio)

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