Al Mulino Lentino che macina ricordi ed emozioni, il racconto di Umberto Fava

Riceviamo e pubblichiamo lo scritto di Umberto Fava che racconta l’esperienza di Macinare Cultura tenutasi domenica 25 agosto al Mulino del Lentino in Alta Val Tidone.

Al Mulino Lentino che macina ricordi ed emozioni

Rose e viole, canti e parole d’affetto

abbraccio alle ragazze del riso amaro

Rose e viole, simboliche e musicali, ideale omaggio alle mondariso, fiori ed emozioni come le note preziose di vecchi canti e brani strumentali offerti da Maddalena Scagnelli insieme a Massimo Visalli, Franco Guglielmetti e Anna Perotti. Musiche ed anche parole, quelle di Umberto Fava che ha rievocato l’epopea agreste delle mondine, i quaranta dì e le quaranta not di quelle massacranti campagne del riso. “Senti le rane che cantano, che gioia e che piacere lasciare la risaia tornare al mio paese”, cantavano quelle ragazze per rompere l’affanno della fatica e l’oppressione soffocante degli afosi meriggi.

Ad ascoltare queste vecchie parole nel fresco del parco del Mulino Lentino, dentro le melodie non solo dell’ensemble della Scagnelli, ma anche dell’acqua che gorgogliava sulla ruota e aveva una voce che suonava molto più dolcemente dell’acqua dei campi di riso, ad ascoltare tra il folto uditorio due anziane signore che sanno di quei tempi e quelle fatiche. Si chiamano Lucia Muratori e Giuseppina Malinverni che da ragazze hanno portato i cappelli di paglia dalle ampie tese, che si muovevano nella risaia a piedi nudi e con la schiena piegata, strappando erbe che tagliavano le dita, tormentate da mosche, tafani e zanzare, immerse per ore nell’aria afosa della pianura. Col padrone con gli stivali di gomma che sull’argine guardava e sgridava nel suo dialetto: “Giù la schina se t’ vo no lassà la cascina”. A loro due bisogna aggiungere il Nando Scarabelli, che se non è sceso in acqua, è pure lui testimone di quelle stagioni avendo lavorato in cascina e in risaia, ed ha ricordato quelle “avventure” come fatte di sacrificio e fatica, ma anche incredibilmente da ripensarle con rimpianto, perché erano gli anni irripetibili della giovinezza. Quando si dice la nostalgia…Il padrone di casa, il re di questo regno di pietre, acque e verde che è il Borgo Mulino Lentino, Fausto Borghi, ha dato a tutti il benvenuto col giusto orgoglio di ospitare una manifestazione di tutto riguardo, che è un inno alla civiltà del lavoro e che macina cultura, tradizione, arte, musica, scrittura.

Insomma, un recital a doppio binario. Su uno l’ensemble di “Rose e Viole”, cioè voce, violino, chitarra e fisarmonica, con brani come “La Mariettina” e “O cavallante” con cui le mondine salutavano il ritorno a casa; e sull’altro le narrazioni di Umberto Fava ricavate dalla sua operetta “Una strada maestra”. Nell’insieme una performance davanti all’uditorio disposto ad arena, come in un teatro antico, per scenario la porta del mulino. In più lo spettacolare apparato fotografico fornito dall’Associazione italiana risi, straordinarie immagini che narrano l’evolversi nel tempo della coltivazione e raccolta del riso; il saluto iniziale di Franco Albertini, sindaco del Comune di Alta Val Tidone; e la “scaletta” studiata dall’assessore Giovanni Dotti in veste di regista e dunque come sempre dietro le quinte. Presenti per l’Amministrazione comunale anche i consiglieri Simona Traversone e Alessandro Buroni.

Canti e ricordi che s’immaginano in una scenografia che si espande in ampi spazi sonori, in paesaggi piatti, lucenti d’acqua, divisi da sottili filari di pioppi. Ma che s’inoltrano nella cascina e ci rivelano quelle cassette di legno che erano le valigie delle mondine e quelle brande coi pagliericci e quelle gavette come quelle dei soldati. E poi le parole del loro canto semplici e forti, espressione di una fierezza vitale da cui verranno le povere doti, l’amore e i figli. Tempi di fatiche, ma anche d’innamoramenti che adesso sono diventati tempi di memorie e di rimpianti. Sì, perché – ha letto Fava nelle sue paginette – su quegli ingrati campi di acqua e di riso, fra quei canti sotto il solleone e un ballo con la fisarmonica nel fresco della sera è passata per loro, le ragazze del riso amaro, un po’ di quella magnifica cosa che è la giovinezza. Gloria alla giovinezza, ed anche gloria a queste eroine di un lungo poema popolare intriso di sudore, fatica e coraggio.

Sono storie di giovinezze e di amori, come quella di Giancarlo e Giancarla sbocciata fra le piantine di riso di Trino Vercellese. Non erano presenti al raduno del Mulino che macina tempo e ricordi, data l’età e il timore di troppo forti emozioni, ma Fava ha con sé le loro parole. “Sono andata alle risaie, e oltre a portare a casa il riso, un chilo per ogni giorno di lavoro, ho portato a casa anche il marito”, dice sorridendo lei. Lei, una Zambarbieri venuta da Pecorara, lui un Ferrarotti del posto, della Daròla, “capitale” di immense distese di risaie. “Racconta di quella volta…”, si dicono l’uno con l’altra. Ma a raccontare e ricordare vengono gli occhi lucidi e appannati di lacrime.

Così nelle brevi letture di Umberto Fava, che è lo stesso che scrive queste righe, cioè io medesimo che si fa cronista di se stesso, confortato dal detto “Chi fa da sé fa per tre”. Fava che non è stato un semplice “ospite” dell’incontro, ma – lasciatelo un po’ insuperbire – uno dei protagonisti. Che ha portato anche lui acqua al Mulino. Ma dopo tanto parlare di riso e di risaie, ci voleva proprio – come cacio sui maccheroni – il risotto con la salsiccia e brodo di gallina preparato da Marco Campana della Bassa Pavese. Ci voleva proprio…

Umberto Fava

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